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L'editoriale del direttore

Evocare un'Europa dei sogni è facile. Meno è spiegare perché ancora non lo è

Claudio Cerasa

A non fare abbastanza non è l'Unione, ma i governi che non hanno il coraggio di concederle più poteri. Per la presidente del Parlamento europeo Metsola bisogna imparare a farsi le domande giuste, anche quelle difficili

Evocare un’Europa dei sogni è facile, spiegare perché quell’Europa non c’è ancora lo è meno, e per farlo occorre mettere insieme quelle tre parole: vizi, tabù, ipocrisie. Chi lo fa? La presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, ieri ha offerto alla platea del Meeting di Rimini alcuni spunti di riflessione preziosi sul futuro dell’Europa. Lo ha fatto, Metsola, con toni forti, coinvolgenti, a tratti enfatici, e lo ha fatto per provare a mettere al centro del dibattito pubblico un concetto in fondo simile a quello cruciale messo a terra da Mario Draghi. Difendere lo status quo, ha detto Metsola, significa arrendersi, significa lasciare l’Europa ai margini, e per questo è tempo di smettere di guardare all’Europa così com’è e iniziare a costruire l’Europa come può essere. Metsola, con coraggio, ha detto che l’Europa, per crescere, deve imparare a farsi le domande giuste, anche quelle difficili. L’Europa deve rispondere con chiarezza alle domande relative alla sua difesa, al suo sostegno all’Ucraina, all’integrazione dei suoi mercati, alla protezione del suo modello di libera impresa, al sostegno del suo modello sociale, che secondo il cancelliere tedesco Friedrich Merz non è più sostenibile, e l’Europa deve rendersi conto che “dove possiamo semplificare, dobbiamo farlo, dove occorre correggerci e adattarci alle nuove realtà, dobbiamo farlo”.

Lo spunto forse più interessante del discorso di Metsola è quello che si trova in un passaggio poco prima della fine del suo ragionamento ed è quello in cui la presidente del Parlamento europeo coglie un punto cruciale. “Se guardiamo i dati prima delle elezioni parlamentari dell’anno scorso e adesso anche in Italia, in tutti i paesi, i cittadini vogliono che il Parlamento europeo faccia di più, che l’Europa parli di più per loro, che li aiuti a fare una vita più semplice, più facile, più possibile, più opportunità”. Da un certo punto di vista, si può dire che la grande novità del passaggio storico che stiamo vivendo è proprio questa. Oggi una parte degli euroscettici e la stragrande maggioranza degli europeisti sono uniti dal desiderio di avere un’Europa che faccia più di quanto fa oggi. Gli euroscettici dicono che l’Europa non fa abbastanza sull’immigrazione, non fa abbastanza per redistribuire i migranti, non fa abbastanza per proteggere i confini, non fa abbastanza per sostenere economicamente le imprese, non fa abbastanza per proteggere gli interessi europei da chi li vuole mettere a rischio, come Trump, e d’altro canto gli europeisti incalliti, come Metsola e come Draghi e come Mattarella, sostengono che l’Europa, per contare di più, debba fare di più, debba essere più presente, più efficiente, più protagonista, più integrata, più solidale. Euroscettici ed europeisti chiedono all’Europa di fare di più ma in entrambi i casi gli euroscettici e gli europeisti omettono di ricordare che gli ostacoli principali per avere un’Europa più forte sono quelli che spesso non vengono ricordati. Gli euroscettici non hanno il coraggio di sostenere che per avere un’Europa più forte occorrerebbe avere un’Europa più sovrana, e la stessa Giorgia Meloni, convertita ormai all’europeismo mainstream, non riesce a fare quel passo in avanti necessario per lavorare a un’Europa più forte, ovvero scommettere sull’Europa a due velocità, dove le decisioni più importanti possono essere prese a maggioranza e non all’unanimità.


Come si fa a volere un’Europa forte senza cedere pezzi di potere nazionale? Dall’altra parte, gli europeisti incalliti, compresi Metsola e Draghi, non riescono a dire in modo esplicito che le debolezze dell’Europa di oggi dipendono in una quota parte importante, come si dice, dalla miopia delle leadership europee, non quelle comunitarie ma quelle nazionali, troppo indaffarate a occuparsi dei propri interessi interni e poco desiderose di rinunciare a spicchi della propria sovranità per avere una sovranità ancora più forte, e le stesse leadership tedesche e francesi che in teoria dovrebbero guidare il processo di integrazione ogni volta che si trovano ad affrontare una qualche partita economica o industriale portata avanti da un attore economico europeo si comportano con un piglio più da sovranisti che da europeisti, vedi anni fa il caso dei cantieri di Saint-Nazaire in Francia allontanato da Fincantieri e vedi oggi l’ostilità contro Unicredit su Commerzbank. Se l’Europa non fa abbastanza non è colpa dell’Unione, ma dei governi che non hanno il coraggio di concederle più poteri. Chi chiede oggi all’Europa di fare di più dovrebbe controllare quanti sono gli scheletri nei propri armadi che impediscono quel cambio di direzione.


E chi ama l’Europa e ne chiede una svolta dovrebbe fare un surplus di riflessione su un fatto solo accennato ieri da Metsola e la scorsa settimana da Draghi che ha a che fare con un impulso dell’Europa contro cui gli europeisti dovrebbero combattere con tutte le loro forze e con tutte le loro energie: evitare che la costruzione dell’Europa del futuro sia trainata da una serie di ideologie, in primis quella ambientalista, che hanno contribuito a trasformare l’Europa in una realtà sempre meno accessibile per chi sogna di fare impresa. C’entra, ovviamente, in questo discorso, il tema degli autodazi interni che l’Europa si è imposta in questi anni, i troppi regolamenti e le procedure lente e complesse che scoraggiano l’innovazione e la crescita, e Metsola lo ha ricordato: 13.000 provvedimenti legislativi nella scorsa legislatura, contro 3.000 negli Stati Uniti, finiscono per frenare imprese e investimenti. Ma c’entra soprattutto il modo in cui l’Europa negli ultimi anni ha creato una serie di vincoli ambientali che hanno contribuito a deindustrializzare l’Europa offrendo infiniti vantaggi strutturali a competitor commerciali come la Cina. Molti imprenditori, come sanno Metsola e von der Leyen, lamentano che Bruxelles dia “lezioni” etiche senza fornire strumenti pratici e ha ragione chi ritiene che il Green deal sia stato in questi anni più un insieme di divieti che un concreto piano di crescita sostenibile. La novità dell’Europa di oggi, dunque, è che tutti chiedono all’Europa di fare di più. Ma la novità che manca ancora all’Europa è quella di rendersi conto di quali sono i tabù e le ipocrisie che i sostenitori di una nuova Europa non sono ancora in grado di affrontare. Un cambiamento coraggioso è necessario, dice Metsola, e il cambiamento è necessario per evitare una lenta e dolorosa spirale verso l’irrilevanza. Ma fino a quando europeisti ed euroscettici continueranno a muoversi nei propri paesi trattando l’Europa solo come un bancomat o solo come una bandiera da usare per combattere i populismi nazionali la lenta e dolorosa spirale verso l’irrilevanza continuerà a essere non il frutto del caso ma solo il drammatico frutto di una scelta irresponsabile, di chi pensa all’Europa del futuro senza avere la forza di smascherare i suoi vizi, i suoi tabù e le sue ipocrisie.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.