Javier Milei (Tomas Cuesta/Getty Images) 

I limiti del modello di Milei

Juan Manuel Telechea

Il presidente libertario sta stabilizzando la macroeconomia dell’Argentina. L’aggiustamento fiscale era necessario ma non basta per produrre crescita e sviluppo: è fondamentale anche il ruolo dello stato

Javier Milei è diventato un fenomeno di interesse internazionale per l’applicazione delle sue idee radicali alla difficile situazione economica dell’Argentina. Per descrivere i successi, gli errori e le sfide del modello economico libertario è però fondamentale distinguere tra stabilizzazione, crescita e sviluppo


Cominciamo dalle prime due, che spesso si confondono fra loro per l’ovvia ragione che un’economia squilibrata – come quella argentina – non può crescere in modo sostenuto. La principale caratteristica di un’economia squilibrata è un’inflazione molto elevata. Questa, di solito, è anche associata a svalutazioni ricorrenti del tasso di cambio che provocano ulteriore inflazione, perdita del potere d’acquisto della popolazione e  recessione. La crescita, invece, si definisce come l’aumento sostenuto – per diversi anni – della produzione: è quindi chiaro perché un’economia squilibrata non può crescere. Non fa mai male ricordare che l’aumento della produzione comporta un’espansione dei redditi. In altre parole, non c’è possibilità di migliorare la qualità della vita della popolazione se un’economia non cresce.

  

L’alta inflazione conduce a svalutazioni, recessione e povertà: un’economia squilibrata non può crescere

 
Il grande dramma dell’economia argentina è che il pil è stagnante da 14 anni e questo spiega in buona misura la caduta dei salari, delle pensioni, la mancanza di occupazione, l’aumento della povertà e del lavoro informale. Insomma, senza stabilità non c’è crescita e senza crescita non c’è possibilità che migliori la qualità della vita.

   
Ma l’inverso non è sempre vero. L’equilibrio economico non garantisce la crescita. Per esempio, l’Austria o il Canada negli ultimi dieci anni hanno aumentato il loro pil pro capite a un ritmo medio annuo appena dello 0,2 per cento. L’Italia, invece, ha un pil pro capite che è praticamente ancora fermo al livello del 2008. Per tornare all’Argentina, la Convertibilità (lo schema di cambio fisso applicato tra il 1991 e il 2001) è un caso emblematico per   mostrare che la stabilizzazione è espansiva (il pil è cresciuto molto nei primi anni), ma da sola non basta (negli anni successivi l’economia si è bloccata e disoccupazione e povertà sono aumentate in modo  significativo). Il punto è che la stabilità economica non è l’unica determinante per spingere la crescita, e tanto meno per farlo alla velocità che serve a un’economia con oltre il 30 per cento della popolazione sotto la soglia di povertà.

 
Ed è qui che compare lo sviluppo, un concetto abbastanza ampio che potremmo riassumere nella trasformazione della struttura sociale e produttiva per ottenere una crescita il più elevata e sostenuta possibile nel tempo. In termini generali, i principali componenti che la letteratura accademica identifica come centrali per lo sviluppo sono, oltre alla stabilità economica, la diversificazione e la sofisticazione produttiva (passare da settori primari ad attività a maggior valore aggiunto), il miglioramento in istruzione e salute (che portano all’aumento della produttività del lavoro), l’investimento in tecnologia e infrastrutture, istituzioni solide e stabili nel tempo.

  
Detto in altro modo: avere un’economia stabile non basta. Facciamo un altro esempio. Il Paraguay è stato il paese dell’America latina che è cresciuto di più negli ultimi anni. Tra il 2012 e il 2022 il suo pil pro capite è aumentato del 19 per cento (tasso annuo dell’1,7 per cento), il che ha portato a una riduzione della povertà di circa 12 punti percentuali. Se estrapolassimo in modo lineare il caso più riuscito di crescita della regione degli ultimi anni all’Argentina, il risultato sarebbe modesto: crescendo a quel tasso per dieci anni la povertà rimarrebbe comunque intorno al 20 per cento.

   
Dove ci troviamo? Il governo di Milei, appena insediato, ha applicato un programma di stabilizzazione abbastanza classico che ha implicato una svalutazione del tasso di cambio, combinata a un aggiustamento fiscale e monetario. Per quanto riguarda le critiche, è importante sottolineare che l’obiezione può – e a mio avviso deve – concentrarsi sul modo in cui è stato fatto l’aggiustamento fiscale, ma lo stesso era indifferibile data la situazione critica in cui versava la macroeconomia dell’Argentina durante l’ultimo anno del governo peronista. Inoltre, l’evidenza empirica mostra che i (pochi) piani di stabilizzazione riusciti sono stati quelli che hanno ottenuto l’equilibrio sia sul fronte fiscale sia su quello esterno.

   
Quanto ai risultati, sebbene il governo abbia rapidamente raggiunto l’equilibrio fiscale e una riduzione dell’inflazione, siamo ancora lontani dal poter affermare che ci troviamo di fronte a un’economia stabilizzata (dovremmo vedere l’inflazione mensile mantenersi intorno all’1 per cento come minimo per un anno, attualmente è tra l’1,5 e il 2 per cento da tre mesi). Inoltre, nei processi di stabilizzazione il sostegno sociale è qualcosa di importante e solo alle elezioni di midterm, che si terranno in ottobre, potremo verificare se buona parte della società argentina approva o meno il programma economico di Milei. Se ciò si realizzasse, e il processo di disinflazione si mantenesse nel tempo, probabilmente sarebbe sufficiente per riprendere la crescita. Esaminando gli ultimi dieci anni, tutti i paesi della regione (con l’eccezione di Argentina e Venezuela, le uniche due economie con inflazione elevata) hanno mostrato un aumento sostenuto del pil. Il problema è che il tasso a cui sono cresciuti i  paesi della regione non sembra sufficiente (come abbiamo già mostrato con i l caso del Paraguay, il migliore).

  
Ed è qui che si vede la principale lacuna del modello economico di Milei, perché fondamentalmente non propone alcun tipo di strategia di sviluppo a medio termine. Attenzione: questo è coerente con una visione libertaria, dato che per definizione non esiste una strategia di sviluppo. E’ il mercato  – attraverso le preferenze dei consumatori – che determina quali settori avranno performance migliori e quali no. Questo implica il rifiuto netto di qualsiasi politica industriale per promuovere determinati settori.

  
Lo stesso Presidente lo ha chiarito in un articolo pubblicato a fine maggio, intitolato “Tempo per la crescita”, in cui sosteneva che “il mero fatto di raggiungere l’equilibrio fiscale in linea finanziaria ci permetterebbe di crescere per più di un decennio al 4 per cento in termini pro capite”. E’ un obiettivo difficile da ottenere: solo 14 dei 188 paesi del mondo sono cresciuti a un tasso medio del 4 per cento negli ultimi 11 anni. Più avanti aggiungeva: “Quei paesi che sono più liberi crescono il doppio di quelli repressi e ciò fa sì che il prodotto pro capite dei paesi liberi sia dodici volte più alto di quello dei paesi repressi. Non solo, ma i paesi liberi hanno 25 volte meno poveri nel formato standard e 50 volte meno nel formato estremo rispetto ai paesi repressi, mentre la vita media è più lunga del 25 per cento. In definitiva, non ci sono motivi per non abbracciare le idee della Libertà, salvo che lei non abbia qualche tipo di ostruzione mentale e/o spirituale o viva del saccheggio statale”.

   

Il Presidente ha scritto che la sola stabilizzazione garantirà un decennio di crescita. Ma la storia mostra che non è così

    
Ci sono due punti importanti da sottolineare. Il primo è che, secondo lo stesso indice di libertà economica, 6 paesi della top 10 presentano una dimensione dello stato e una pressione fiscale elevate (Svizzera, Lussemburgo, Australia, Danimarca, Norvegia e Paesi Bassi). Ma la cosa più importante è che nessuno di quei paesi (né gli altri che guidano quell’indice) si è sviluppato senza l’intervento dello stato. L’evidenza storica e la letteratura mostrano che lo stato è stato fondamentale in quasi tutti i casi di successo attraverso politiche selettive per sostenere determinati settori produttivi, investimenti in istruzione, salute, infrastrutture e politiche della conoscenza. Anche nei casi più “liberali”, come Hong Kong, Svizzera o Irlanda, lo stato è stato necessario per creare e proteggere i diritti di proprietà.

  
In sintesi: stabilizzare l’economia è necessario, ma non basta. Senza un piano che articoli investimenti, diversificazione produttiva, miglioramento del capitale umano e rafforzamento istituzionale, la crescita non sarà sostenuta e lo sviluppo resterà fuori portata. L’evidenza internazionale mostra che nessun paese ha raggiunto alti livelli di reddito e benessere duraturi senza uno stato che pianifichi, coordini ed esegua politiche di lungo periodo insieme al settore privato. Credere che la stabilità da sola inneschi un decennio di forte crescita vuol dire ignorare l’esperienza comparata. La sfida dell’Argentina non è solo fermare la crisi, ma costruire le basi affinché, una volta stabilizzata la macroeconomia, ci sia un percorso chiaro verso lo sviluppo.

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