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lo scenario

Il nuovo “capitalismo di stato” tra banche, scalate ed economia

Mariarosaria Marchesano

Governo e grandi gruppi si muovono per ridisegnare l’assetto del sistema bancario, ma l'interventismo pubblico nasconde dei rischi. “Legare banche e imprese al ciclo elettorale può minare la fiducia degli investitori. Il mercato non è un nemico, ma una risorsa da rispettare”, dice Andrea Beltratti, docente alla Bocconi

L’interventismo dei governi nelle operazioni bancarie e nell’economia è sempre più diffuso. Si comincia a parlare di “nuovo capitalismo di stato”. Andrea Beltratti è professore di Finanza all’Università Bocconi e Academic director dell’Executive Master in Finance della Sda Bocconi, studi  a Yale ed esperienze ai vertici di banche, assicurazioni e società di asset management. Gli chiediamo: lei che cosa ne pensa? “Mi coglie preparato – scherza – Ho appena finito di leggere un libro di Von Hayek (uno dei massimi pensatori liberali del Novecento, premio Nobel per l’Economia, ndr), cosa vuole che ne pensi? Ci abbiano messo quarant’anni per liberarci delle inefficienze generate a livello di sistema dalla presenza statale nelle attività economiche. Spero che l’Italia non farà questo passo indietro, perché sa qual è il rischio maggiore?”. Quale? “Soprattutto il collegamento tra le prospettive di sviluppo del sistema bancario o di un settore produttivo al ciclo elettorale che è di cinque anni, se tutto va bene, facendo danni che poi è difficile riparare”. Per esempio? “Esiste la possibilità di fuga di capitali quando l’intervento pubblico rischia di pregiudicare il rapporto tra rischio e rendimento atteso dagli investitori di mercato”.

Eppure c’è chi teorizza la fine del “turbocapitalismo” e la necessità di contemperare le aspettative di profitto degli operatori finanziari con quelle di credito alle imprese e della società in generale e che quindi sia giusto che la politica se ne occupi. Lo stesso ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, ha parlato di “un mondo nuovo”, riferendosi al fatto che la gestione del risparmio è di interesse nazionale. Il golden power che il governo Meloni ha usato per fermare l’offerta di Unicredit su Banco Bpm è stato giustificato in questo senso e il sostegno alla scalata di Mps a Mediobanca con la necessità di creare un terzo polo bancario in Italia. Proprio domani (oggi per chi legge) si svolgerà un’assemblea piuttosto infuocata. Sempre l’esecutivo italiano starebbe valutando alcune misure per limitare la presenza di azionisti cinesi nelle società quotate di rilevanza strategica. Un altro caso è l’ingresso di un socio a controllo pubblico come Poste italiane in Tim con anche l’obiettivo di guidare il consolidamento nel settore della telefonia. Insomma, si respira un’aria di cambiamento a favore di una maggiore presenza  dello stato nell’economia e, per la verità, la Borsa non sembra esserne disturbata. “A prescindere da casi specifici, penso invece che l’operatore pubblico debba intervenire come regolatore oppure per facilitare e amplificare lo sviluppo economico e finanziario di un paese attraverso delle riforme o anche in casi circoscritti di salvataggio. Trovo sia complesso e pericoloso provare a orientare o indirizzare le scelte strategiche di banche o società quotate. Insomma, il mercato ha un ruolo fondamentale in un sistema avanzato e democratico, trattarlo come se fosse un nemico o un soggetto marginale è almeno un po’ anomalo. Forse bisognerebbe ricordare che il capitale ha un costo”. Però, ad esempio, nel caso della scalata di Mps a Mediobanca, Palazzo Chigi sta appoggiando l’iniziativa di imprenditori e operatori di mercato. Non crede? “Comunque vada l’operazione, l’auspicio che tutti dovremmo esprimere è che vengano poi soddisfatte le aspettative di chi investe capitali. Non mi interessa chi vincerà, ma la tutela di questo principio fondamentale, a beneficio di tutti gli azionisti, grandi e piccoli, nazionali ed esteri e di un equilibrio complessivo del sistema”.

 

L’Italia, comunque, non è l’unico paese in cui sta crescendo la tendenza a proteggere l’economia e il sistema bancario, come dimostrano gli approcci recenti di Germania e Spagna. “A livello internazionale abbiamo osservato questo tipo di ingerenza soprattutto nelle banche che non avrebbero bisogno di politiche industriali pubbliche, a differenza del sistema produttivo italiano che necessita di strumenti anche di tipo finanziario che ne favoriscano la crescita dimensionale e ne riducano la dipendenza dal credito bancario. Come ad esempio fece il governo Monti, con Corrado Passera ministro dello Sviluppo economico, quando introdusse i minibond per le piccole e medie imprese. Quello è stato un tipo di intervento pubblico che ha dato un contributo in termini di efficienza e di sviluppo. Da allora, ricordo Industria 4.0 fatta da Calenda e niente o poco altro. Insomma, di cose da fare per la crescita economica ce ne sarebbero. Nel contesto europeo è evidente a tutti che abbiamo bisogno di campioni bancari e industriali. In questo senso, l’uso del golden power con Unicredit è un segnale contrario alla prospettiva di maggiore integrazione europea”. Intanto, però, la banca guidata da Andrea Orcel continua a correre in Borsa. Come si spiega? "Il capitale (in eccesso, ndr) di Unicredit non è sparito. Il mercato sa che potrebbe essere usato in ulteriori acquisizioni oppure distribuito come una grande extra cedola agli azionisti”. Che cosa dovrebbe fare, secondo lei, il Mef, una volta che la scalata a Mediobanca, come appare probabile, sarà compiuta? “Non c’è dubbio, uscire di scena al più presto e lasciare che il mercato faccia il suo percorso”. 

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