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l'analisi

Sui dazi Trump non ha la legge dalla sua

Oscar Giannino

I poteri del Congresso e l’eccezionalità del ricorso allo Ieepa. Gli “accordi” che sono impegni vaghi e non trattati commerciali 

Il caso dell’India ha dimostrato per l’ennesima volta  la del tutto imprevedibile postura del presidente americano Donald Trump sul tema dei dazi. Dopo cinque round di trattative dirette, tutto sembrava volgere a favore di un esito che avrebbe comportato sulle merci indiane un dazio americano del 15 per cento, analogo a quello adottato verso l’Unione europea. Previsione smentita radicalmente da Trump, che ha annunciato invece un dazio aggiuntivo all’India del 25 per cento rispetto al 25 per cento vigente, col risultato che al 50 per cento l’India si trova in cima rispetto ai paesi più colpiti dalla politica americana delle tariffe, insieme al Brasile. 

I più hanno commentato che la durezza di Trump è stata dovuta al no del premier indiano Modi a diminuire o addirittura sospendere le massicce importazioni energetiche dalla Russia di Putin, che in effetti dall’invasione dell’Ucraina hanno rappresentato una importante stampella al bilancio russo della difesa, visto che in tre anni l’import di greggio russo ha superato il 40 per cento del totale di import petrolifero indiano, assicurando a Mosca un flusso finanziario complessivo pari a quasi 200 miliardi di dollari. In realtà, come vedremo in questo approfondimento, la giustificazione della Casa Bianca suona molto più volta a dare una base giuridica alla decisione dei dazi aggiuntivi, che rispondente alla realtà dei fatti. Le autorità indiane non hanno fatto mistero che Trump non abbia gradito la delusione del premier Modi quando la Casa Bianca si è intestata il merito dell’armistizio tra India e Pakistan, dimenticando le responsabilità dei servizi e delle forze armate pachistane nei nuovi attentati islamisti nei territori indiani sub-himalayani. E calpestando tutti i presupposti dell’avvicinamento dell’India verso forniture militari occidentali e non più russe, e verso un quadro di impegni di difesa condivisi con  il Quad indo-pacifico, che gli Usa condividono con Australia e Giappone per contenere la minaccia cinese. Col risultato che il Pakistan ha chiuso un accordo preferenziale con gli Usa su dazi al 19 per cento, più favorevole del trattamento riservato all’India. 


La “giustificazione mascherata” riservata al colpo di maglio inflitto all’India ci porta dritti al tema centrale di questa riflessione. Travolti dal presunto “effetto Armageddon” che i dazi al 15 per cento applicati alla Ue riserverebbero alle nostre economie, i migliori analisti europei hanno trascurato un punto che invece è fondamentale. Quello delle debolissime basi giuridiche delle mesmeriche decisioni sin qui assunte da Trump. Dove per basi giuridiche, purtroppo, non bisogna fare riferimento ai trattati bilaterali e multilaterali in materia di commercio sin qui vigenti, come sperano Canada e Messico facendo riferimento all’Usmca, entrato in vigore dal primo luglio 2020 e definito proprio con la prima Amministrazione Trump, che aveva silurato il precedente Nafta.  La Wto è di fatto morta, con la seconda Amministrazione Trump, e di fatto in materia di arbitrato tra le parti sui trattati vigenti il suo ruolo è defunto da anni, in ragione del deciso rifiuto statunitense di procedere a nuove nomine necessarie per rendere operativa la sua corte arbitrale: rifiuto che ha visto l’Amministrazione Biden assolutamente in linea con la prima Amministrazione Trump. 

L’assoluta debolezza giuridica degli ukase di Trump

No, l’assoluta incertezza sulle basi giuridiche dei dazi assunti da Trump va misurata sulle norme vigenti in materia nell’ordinamento istituzionale degli Stati Uniti.  Come ha giustamente argomentato in suo saggio Phillip W. Magnees, ex senior research fellow dell’American Institute For Economic Research e professore associato alla George Mason University, è opportuno ricordare che l’“accordo commerciale” con la Ue, come gli altri annunciati da Trump finora, non è un accordo commerciale convenzionale tra nazioni. Né il Congresso né la sua controparte europea hanno votato sui termini specifici, che potrebbero non esistere al di là degli impegni verbali che Trump e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen hanno assunto in un incontro il giorno dell’annuncio. I documenti pubblicamente disponibili contenenti il testo di questo “accordo”, come di qualsiasi altro che Trump ha affermato di aver ottenuto, in nessun modo hanno la veste – né formale né sostanziale – della complessità tecnica e della precisione giuridica di trattati commerciali tra Nazioni. Trump e le sue controparti non hanno nemmeno firmato formalmente nulla che li vincoli legalmente ai loro termini. L’accordo con l’Ue è, nella migliore delle ipotesi, un quadro di impegni vaghi che potrebbero o meno essere formalizzati in futuro: vedi l’impegno a 750 miliardi di acquisti energetici dagli Usa in tre anni, o i 600 miliardi di investimenti europei aggiuntivi negli Usa. 


L’intero programma tariffario di Trump poggia su una base giuridica e politica estremamente instabile, a cominciare dalla sua legittimità misurata con criteri statunitensi. Trump ha evitato in ogni modo di riferirsi alle leggi in materia di dazi vigenti negli Usa. Fino a questa primavera, la maggior parte dei dazi statunitensi seguiva le procedure stabilite in precise norme federali: il Trade Expansion Act del 1962, il Trade Act del 1974, e una serie di altre norme attuative. Tali leggi contengono clausole che consentono al presidente di imporre tariffe temporanee – occhio: “temporanee” – su beni o paesi specifici solo se vengono soddisfatte determinate condizioni, come un’esigenza comprovata di sicurezza nazionale o la prova concreta che un altro paese abbia “scaricato” merci negli Stati Uniti violandone le leggi. Anche le motivazioni alla base di queste clausole sono state in passato spesso politicizzate, ma contengono comunque specifici requisiti formali e sostanziali che vanno soddisfatti, per dare legittimità a decisioni unilaterali su nuovi dazi. E spetta precisamente alla Casa Bianca verificare formalmente e produrre evidenza che le condizioni di legge siano state soddisfatte, per sottoporre le sue decisioni all’esame del Congresso. 


Il Congresso ha infatti poteri espliciti di supervisione per esaminare qualsiasi dazio proposto dalla Casa Bianca, e in assenza di rispetto delle clausole di legge può annullare la decisione del presidente.  La maggior parte dei presidenti ha fatto ricorso periodicamente a queste clausole per imporre misure tariffarie limitate, compresi i dazi imposti da Trump alla Cina durante il suo primo mandato. Ma tutte quelle misure sono state attuate rispettando rigorosamente le procedure e i requisiti di eventuale revisione previsti dall’ordinamento Usa. Non è così con l’attuale tornata di dazi di Trump, che sono molto più espansivi di qualsiasi cosa abbia tentato durante il suo primo mandato. Invece di utilizzare le suddette leggi commerciali, Trump rivendica il potere di imporre dazi tramite ordine esecutivo unilaterale ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa) del 1977. Utilizzando l’Ieepa, Trump ritiene di poter emanare nuovi dazi per quasi qualsiasi motivo desideri. Di conseguenza, ha stabilito nuove aliquote tariffarie pubblicando lettere ai leader stranieri su Truth Social o annunciando i termini di “accordi” stipulati in conversazioni informali con capi di stato o di governo stranieri. Secondo le norme esistenti e le procedure sin qui seguite, il rischio per Trump di impugnative di illegittimità dei suoi ordini daziari assunti su base Ieepa esiste eccome, davanti alla Corte d’appello federale e alla Corte Suprema. E diventerà tanto più probabile man mano che l’effetto dei dazi si manifesterà sui numeri concreti della crescita del pil, dei prezzi e dell’occupazione negli Usa. 


Dazi e vincoli costituzionali in Usa 

Oltre all’interpretazione forzata dello Ieepa, l’Amministrazione Trump deve affrontare veri e propri ostacoli costituzionali. L’Articolo I, Sezione 8 della Costituzione degli Stati Uniti conferisce al Congresso l’autorità esclusiva di decidere tariffe e aliquote daziarie nell’ambito dei suoi poteri fiscali e commerciali. Precedenti sentenze della Corte Suprema hanno confermato leggi in cui il Congresso autorizzava il presidente a modificare le aliquote tariffarie ma solo a determinate condizioni, come il rispetto dei già citati Trade Act del 1962 e del 1974. Tuttavia, non hanno mai autorizzato nella storia il presidente a stabilire autonomamente le aliquote per qualsiasi motivo. 
Esiste nella giurisprudenza costituzionale Usa una consolidata “dottrina della non delega”, che richiede al Congresso di stabilire un “principio chiaro e intelligibile” affinché il potere esecutivo possa esercitare un potere delegato. Come sussiste una parallela “dottrina delle questioni principali”, che impedisce al potere esecutivo di decidere autonomamente questioni politiche di grande rilevanza economica e politica senza l’espressa autorizzazione del Congresso. La Corte di Arbitrato della Camera di Commercio internazionale (il più vasto organo  privato in materia, a cui partecipano le rappresentanze di molte decine di migliaia di imprese di tutto il mondo) ha citato entrambe le dottrine nella sua decisione secondo cui Trump ha abusato dell’Ieepa per imporre dazi. Ma la cosa più interessante è che la maggior parte dei giudici dell’attuale Corte Suprema degli Stati Uniti si è pronunciata nel recente passato contro il potere esecutivo in casi che riguardavano questioni simili, come il caso West Virginia contro Epa del 2022, e nelle loro sentenze contro il tentativo del presidente Joe Biden di condonare parte dei prestiti federali agli studenti senza l’autorizzazione del Congresso. Trump potrebbe dunque giocare con meno carte di quel che si crede, quando impone accordi daziari generali che vanno ben al di là di clausole verificabili e verificate e di sicurezza nazionale

Tre possibili scenari 

Consideriamo i possibili scenari. Certo, non è sicuro che una Corte d’appello federale e poi la Corte Suprema decidano a favore di impugnative che chiedano l’annullamento di decisioni daziarie dell’amministrazione assunte su base Ieepa, e con esse ogni presunto “accordo” – in realtà diktat – ottenuto finora. Gli esiti in aula non sono mai garantiti e tendono a seguire i tempi dei giudici ma, visti i precedenti sopra richiamati, in realtà tali eventuali decisioni potrebbe plausibilmente manifestarsi anche nel giro dei prossimi 4-6 mesi.  Supponiamo invece che la Corte Suprema sollevi eccezioni procedurali o sostanziali, varando a maggioranza una dottrina costituzionale totalmente diversa da quella fondata sul rispetto delle prerogative del Congresso, sin qui molte volte confermata. Anche in questo scenario, le conseguenze progressive dei dazi sull’economia americana – sempre che. ammesso e non concesso, i democratici si sveglino dal loro sonno, che gioca a favore di Trump – potrebbero determinare che alle elezioni di midterm del 2026 Trump perda la maggioranza in una o entrambe le Camere del Congresso. In quel caso, cadrebbe con certezza la norma procedurale imposta dallo Speaker repubblicano Mike Johnson ad aprile, per impedire ricorsi in aula ai dazi Ieepa di Trump. Johnson è stato costretto a questa evidente forzatura istituzionale perché gli mancava la certezza dei voti necessari a respingere un ricorso diretto, bastando pochissimi repubblicani liberisti per far prevalere i democratici. Un Congresso all’opposizione renderebbe molto più difficile per Trump continuare sulla via delle ordinanze esecutive sui dazi, e molti presunti “accordi” sui dazi potrebbero cambiare. Un terzo scenario potrebbe infine verificarsi alle elezioni del 2028, in cui entrambi i partiti politici nomineranno nuovi candidati a causa dei limiti di mandato di Trump. Se davvero i dazi su base Ieepa fossero ancora in vigore nel 2028, sarebbero revocabili con la stessa procedura-lampo adottata da Trump. In assenza di di qualsiasi codificazione degli ordini tariffari e degli “accordi” di Trump in leggi, se le conseguenze in Usa dei dazi saranno impopolari il successore di Trump dovrà abrogarli, a qualunque partito appartenga.  

Macché “dazi ritorsivi”, la Ue deve fare tre cose  

Alla luce di queste considerazioni, risalta ancor più l’insensatezza di chi nella Ue continua a rimpiangere e a invocare “dazi ritorsivi”. I politici spesso credono che adottare muscolari dazi di ritorsione significhi aumentare i prezzi nel paese straniero che ha scelto la guerra. Al contrario: è nel paese che sceglie la guerra commerciale che i prezzi salgono, ergo i dazi di ritorsione gravano sulla popolazione del paese che li adotta, con prezzi più alti e minori possibilità di scelta per i consumatori. Il dazio ritorsivo è come imporre un blocco ai propri porti per far dispetto a un avversario che ha scelto di fare lo stesso con i propri. Questa strategia porta dritta dritta a danni economici autoinflitti. E’ certamente vero che accettare un dazio del 15 per cento sui prodotti europei, rispetto all’1,47 per cento in vigore prima dell’inizio della guerra commerciale di Trump, produrrà dei danni. Ma saranno più limitati di quanto dicano le previsioni-Armageddon. E alla forza dell’economia europea fa più danni il mantra di chi ripete che la Ue si è fatta umiliare. Per tre ragioni. La prima è che la strategia ritorsiva dimostrerebbe solo che la Ue non crede affatto nella propria capacità di riorientare i propri flussi commerciali, come la Cina sta facendo in pochi mesi, rendendo nullo sul suo export complessivo l’effetto di quanto sta perdendo di export negli Usa. La seconda ragione è che una Ue ritorsiva farebbe la parte di chi non crede nella propria capacità di costruire nuove alleanze commerciali con un numero crescente di paesi a cominciare da Australia, Canada, Giappone, Corea del Sud e India, con proprie corti di arbitrato e forza e autorevolezza tale da attirare molti paesi emergenti, visto che la Wto è di fatto morta. La terza ragione è che, alimentando anche noi le guerre daziare, mostreremmo di credere che Trump e le sue ordinanze da bullo siano lì per restare, mentre al contrario bisogna esercitare la virtù della pazienza e della determinazione, aspettando che vada a casa e che prevalga la separazione tra poteri che sta scritta nella Costituzione degli Usa. 

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