Assetti pericolosi

Cosa rischia un'Europa incapace di reagire alla mossa di Trump sui microchip. Intervista

Mariarosaria Marchesano

Trump usa i dazi sui microchip per sfidare la Cina e guidare la geopolitica. L'Ue resta indietro: il Chips Act europeo prova ad alzare la produzione, ma la dipendenza dall’Asia resta alta

“Stiamo assistendo alla ridefinizione delle filiere produttive su basi tariffarie. Tra queste, la filiera dei microchip è forse la più globalizzata e ridefinire l’assetto, come stanno cercando di fare gli Stati Uniti, vuol dire gettare le basi per esercitare in futuro il controllo sulla catena di fornitura per l’intelligenza artificiale. È la controprova che quella che Trump sta giocando non è solo una partita commerciale ma geoeconomica e geopolitica, che punta a sottrarre alla Cina il dominio su settori strategici”. Aldo Pigoli, docente di Geografica economica e Analisi dei mercati internazionali all’Università Cattolica di Milano, spiega al Foglio come si può interpretare quella che appare come l’ultima e irrazionale uscita di Trump sull’applicazione di dazi al 100 per cento alle importazioni di semiconduttori, eccetto per le imprese, che, come la taiwanese Tsmc, accettano di produrre direttamente negli Stati Uniti.  

  
La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha precisato che l’accordo su tariffe al 15 per cento è valido anche per i microchip e i farmaceutici, ma l’incertezza resta. “L’Europa – riflette Pigoli – dovrebbe uscire da una posizione puramente difensiva e farsi parte attiva cercando, per esempio, di implementare il Chips Act, programma varato qualche anno fa e che si pone l’obiettivo di portare la produzione europea dall’attuale 11 per cento al 20 per cento. Forse si potrebbe fare di più considerato che queste componenti giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’intelligenza artificiale”. E questo, infatti, è diventato il nuovo terreno di scontro tra Stati Uniti e Cina per la conquista della supremazia tecnologica. La rivoluzione portata dalla start up cinese DeepSeek (utilizzo di minori quantità di chip per implementare modelli avanzati di Ai) ha, per esempio, messo molto in allarme la Casa Bianca. In ogni caso, è normale che in questo nuovo ordine mondiale che gli americani stanno provando a imporre attraverso politiche commerciali protezionistiche ci siano aziende italiane che ci guadagneranno (ieri Il Foglio ha raccontato il caso del produttore di cavi per tlc e fibra ottica Prysmian) e aziende che rischiano di perderci (per esempio, il gruppo Stm, frutto di una partnership pubblico-privata tra Italia e Francia e che non ha stabilimenti negli Usa). “Ma bisognerebbe andare oltre questo aspetto e interrogarsi su come ridurre la dipendenza europea delle importazioni di microchip. Perché se è vero che alcuni dei produttori europei sono anche esportatori e bisogna cercare di proteggerli da tariffe esorbitanti, è altresì vero che siamo molto lontani dal coprire il nostro fabbisogno. Gli Stati Uniti sarebbero così sensibili all’indipendenza di Taiwan nei confronti della Cina se sull’isola non fosse concentrata la maggiore produzione mondiale di microchip?”. 

  
Eppure, quando si parla di dazi ci si limita quasi sempre a considerarla una questione di carattere commerciale e ad analizzare le ricadute sugli esportatori europei. “L’America è stata abile a venderla come una questione commerciale chiedendo all’Europa di ridurre il suo surplus, ma si è andati ben oltre. Tanto per cominciare, avere un deficit commerciale per gli Usa è sempre stato un fattore di forza e non di debolezza. Ma il vero intento di Trump è riscrivere i rapporti di forza con le altre aree del mondo usando le tariffe come leva. Non è un caso che l’accordo raggiunto tra la Commissione europea e la Casa Bianca su tariffe al 15 per cento preveda condizioni che non hanno nulla a che fare con il commercio”. Tra queste ci sono i 600 miliardi di investimenti che l’Europa dovrebbe realizzare negli Usa, che la presidente von der Leyen ha precisato essere “non vincolanti” ma che Trump ritiene invece lo siano tant’è che ha minacciato di portare le tariffe al 35 per cento nel caso tale condizione venisse violata. “Finché non ci saranno accordi formalizzati nei dettagli e solo ordini esecutivi del presidente degli Stati Uniti, vivremo nell’incertezza – prosegue Pigoli – E quello degli investimenti rappresenta un punto che si sta prestando a diverse interpretazioni delle parti”. Ma chi li dovrebbe fare questi investimenti, gli stati europei o i privati? “Non ci sono indicazioni in merito, ma se prendiamo un accordo simile fatto dal Giappone, le risorse pubbliche stanziate sono state all’incirca il 5 per cento. Credo che la Casa Bianca punti a ottenere investimenti da parte di imprese e operatori finanziari europei. La domanda è come può la Commissione garantire che ciò accada o come possono gli stati membri incoraggiare tali investimenti. Andare a realizzare una parte della produzione negli Usa rappresenta per qualsiasi imprenditore un costo. L’unica strada sarebbe incoraggiare i privati a farlo stanziando degli incentivi, il che vorrebbe dire destinare spesa pubblica per creare sviluppo e occupazione fuori dall’Europa. Sarebbe quantomeno controverso”.