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la sfida commerciale
La botta dei dazi su una questione settentrionale al minimo storico dell'appeal. L'Fmi ci avvisa
Le strette commerciali di Trump impattano sul nord italia, ma il nordismo di di Salvini e Schlein è azzerato. Adesso tocca alla premier
Persino il Fondo monetario ci ha avvisato che a soffrire di più per l’inasprimento dei dazi commerciali americani sarà il nord. E del resto è abbastanza evidente come sia la Regione A4 a concentrare la capacità di export del made in Italy con performance a livello di singole province – ad esempio Vicenza – che nel recente passato ci hanno inorgoglito. Al punto, purtroppo, che il ministro Adolfo Urso di concerto con i suoi colleghi di governo ha fatto approvare in Parlamento una inutile legge sul made in Italy che serve a organizzare sagre di paese, dibattiti da sbadiglio e a distribuire qua e là medaglie agli imprenditori.
Più interessante, allora, sarà tentare di ragionare sulla relazione che passa tra l’introduzione del massimo delle penalità commerciali (i dazi) e il minimo della reputazione/appeal del nordismo. La questione settentrionale sembra battere in ritirata anche perché i soggetti che l’avevano battezzata e immessa nel discorso pubblico o hanno cambiato idea o contano assai poco nell’attuale congiuntura. Partiamo come è giusto che sia dalla Lega ex nord. Matteo Salvini è passato come un Tir sopra i simboli del nordismo, gli uomini che nel suo partito lo avevano interpretato con maggiore passione, le proposte di legge che privilegiavano i territori settentrionali. Prima la coesistenza con il generale Vannacci e la sua promozione ai vertici della Lega ha segnato una forte discontinuità e successivamente (e soprattutto) la decisione di procedere nella costruzione del Ponte sullo Stretto rappresenta una cesura netta con quella base leghista che nelle feste del Carroccio aveva sempre manifestato ostilità verso quel progetto. Di fronte all’offensiva di Salvini il nordismo lombardo che aveva salde radici nelle organizzazioni territoriali delle valli si è come liquefatto. Non solo ha sempre meno potere interno ma non è riuscito a rinnovare le sue parole d’ordine e ha subìto l’egemonia a tutto campo del segretario.
E’ rimasto in vita il nordismo veneto, una variante regionale, soprattutto grazie a Luca Zaia e alla sua battaglia per il terzo mandato e l’autonomia differenziata. Salvini però deve pensare che la bandiera autonomistica valga grande consenso solo nel Veneto e di fatto non ne ha mai fatto un punto decisivo del suo, pur costante, braccio di ferro con le altre componenti politiche della maggioranza di governo. Di recente, di fronte al rafforzamento dei poteri di Roma Capitale, Zaia ha proposto una versione nuova del suo nordismo sventolando l’idea di promuovere al rango di città-stato sia Venezia sia Milano. Per ora nessuno ha raccolto la sua provocazione. All’interno del centrodestra, invece, si sta ancora discutendo chi candidare alla guida prima del Veneto e in futuro della Lombardia ma è certo che Zaia resta fuori dalla partita e dovrà essere compensato con una poltrona ministeriale o con la designazione a candidato sindaco di Venezia. Ma per il nordismo non si tratta, per ora, di una vittoria. Tutt’altro. Più Ponte e meno governatori leghisti non è uno scambio a favore del partito fondato da Umberto Bossi, almeno così non lo percepiscono le platee leghiste.
La questione settentrionale immessa prepotentemente nel circuito politico dalla Lega però nel tempo ha affascinato settori del Pd, che nella Regione A4 non guida le regioni ma ha come patrimonio la guida delle amministrazioni comunali di tante città medie e grandi. In questi anni seppure a singhiozzo il settentrionalismo ha fatto breccia nel campo dem e conquistato settori intellettuali d’area. Di recente persino il sindaco di Milano Beppe Sala ha fatto riferimento a una questione settentrionale da rilanciare e nei mesi scorsi il duo Bonaccini-Gori aveva organizzato al Kilometro Rosso di Bergamo un’adunata dei riformisti del partito con la partecipazione del presidente della Confindustria, Emanuele Orsini. Sono però largamente refrattari al nordismo la segretaria Elly Schlein e Andrea Orlando che ha organizzato un tour dem nelle fabbriche e infatti la bandiera della questione settentrionale è rimasta al solo Gori.
Più complesso è il posizionamento degli emiliani: Bonaccini che in passato aveva aperto all’autonomia differenziata ha cambiato idea, nel frattempo il gruppo dirigente che lo ha sostituito al vertice della regione ragiona da amministratore di una grande area industriale del triangolo nordista, vivace quanto e più di Lombardia e Veneto. Ma da pragmatici quali sono, gli emiliani stanno attenti a non passare il Rubicone del settentrionalismo lessicale. Coccolano però le multinazionali, cercano di attrarre talenti, soffrono l’emigrazione giovanile e dedicano costante attenzione alle filiere di fornitura.
La Confindustria di Orsini, altro emiliano, non è settentrionalista. Si obietterà che come rappresentanza nazionale non potrebbe esserlo comunque per rispetto delle altre regioni. Ma non lo è soprattutto perché la stella polare delle scelte confindustriali è definita dal rapporto con il governo e soprattutto con la sua leader Giorgia Meloni. Pur di non litigare con palazzo Chigi Orsini ha digerito nell’ultima finanziaria sia l’amputazione del Fondo Auto (misura che ha penalizzato il nord) sia l’eliminazione dell’Ace. La dirigenza degli imprenditori crede più nelle relazioni di vertice tra soggetti-protagonisti che nel movimento dal basso. E quando deve protestare si affida a qualche pronunciamento-stampa dei presidenti territoriali abilmente pilotato dall’ufficio centrale.
Resta da leggere l’operato di Fratelli d’Italia che al nord ha valanghe di consenso elettorale ma non amministra né regioni né città significative. Da mesi gli esponenti meloniani spingono in Veneto per designare uno di loro al dopo Zaia e adesso a Milano chi gioca una partita di movimento è Ignazio La Russa, che spinge Sala alle corde e guida la revanche della destra che sogna di conquistare Palazzo Marino. Ma né i meloniani veneti né la filiera larussiana si sono finora veramente confrontati con la questione settentrionale, né hanno proposto una loro elaborazione anche parziale. Si sono limitati a far fuoco con la legna che hanno trovato.
E’ evidente però che questo compito non può essere caricato sulle loro spalle, è la stessa Meloni a essere chiamata a fare i conti con il nord. Gli imprenditori la rispettano (e considerano Schlein come una sorta di extraparlamentare di sinistra), seguono con attenzione la condotta della premier nei numerosi e impegnativi consessi internazionali a cui partecipa ma non la ritrovano al loro fianco sui temi che interessano davvero. E che non possono essere delegati a Urso. E’ nel confronto diretto post-dazi tra la premier e gli industriali del nord che si gioca dunque la possibilità di reagire e riaprire la questione settentrionale. Qualche nuova carta da giocare Meloni può pensare in cuor suo di averla magari dopo un’eventuale vittoria del progetto bancario di Mps (lo sbarco a Milano) o forse confidando nell’amicizia con la Cisl. I nodi che sembra dover sciogliere però sono innanzitutto quelli della produttività e di una drastica semplificazione burocratica. Ma è attrezzata l’inquilina di palazzo Chigi a queste sfide? Oppure l'Fmi ci ha visto lungo?