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L'analisi
Perché il tessuto produttivo italiano può assorbire le pazzie di Trump meglio di altri
Niente panico sui dazi. L’Italia può gestire bene le isterie del tycoon grazie alla sua struttura industriale fatta in larga parte di aziende familiari e di media dimensione. Uno studio
Per alcuni è il miglior accordo possibile, per altri rappresenta la resa della Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen al protezionismo di Donald Trump (che ieri è tornato a minacciare dazi all’Ue del 35 per cento). Secondo una ricerca di Boston Consulting Group, l’intesa va interpretata anche in chiave politica: “L’impegno di Ue e Stati Uniti di collaborare contro la sovrapproduzione globale potrebbe essere il primo passo verso un’alleanza industriale più solida tra le due sponde dell’Atlantico, utile a rispondere con più forza alla concorrenza di economie extra-Ue”. Ma quale sarà il reale impatto su imprese e settori produttivi dei dazi al 15 per cento? Bisogna dire intanto che si tratta di una tariffa media europea e che dovrebbero essere stati esentati alcuni comparti strategici come l’industria aerospaziale, i semiconduttori, alcuni prodotti chimici, risorse naturali e beni agricoli specifici.
E’ innegabile che sia difficile comprenderne la ricaduta in termini reali se non altro perché è evidente che varierà a seconda degli stati membri e del singolo settore. Lo studio di Boston Consulting Group entra nel merito di questa dinamica chiarendo che l’Italia potrebbe dimostrarsi più capace di altri paesi di resistere grazie alla struttura del suo sistema produttivo che lo rende flessibile e meno vulnerabile agli choc esterni, come del resto si è già visto già in passato.
“La struttura industriale italiana, fatta in larga parte di aziende familiari e di media dimensione, ci dà una certa agilità in un contesto così volatile”, dice Davide Di Domenico, managing director e senior partner di BCG. Le imprese più vulnerabili saranno quelle più esposte a settori standardizzati (materie prime e commodities) dove è più complicato trasferire i costi al cliente finale. “Il made in Italy, per fortuna, spesso vive in nicchie premium e riesce meglio a superare gli aumenti di costo. Certo, ci sono mercati – penso al lusso, che subirà i dazi più pesanti – dove l’effetto sulla domanda potrà farsi sentire”.
Se si guarda, infatti, all’incidenza delle tariffe per singoli settori, si scopre che, a livello europeo, fashion e lusso subiranno rincari medi del 24 per cento (in Italia si arriva al 26 per cento), i metalli del 33 per cento (in Italia fino al 37 per cento) e i macchinari del 20 per cento (in Italia il 21 per cento). Per ciascuno di questi settori, poi, secondo lo studio, l’impatto stimato a livello europeo si aggira tra 8 e 9 miliardi di dollari, in termini di dazi aggiuntivi, mentre per le aziende italiane i rincari peseranno per 1,6 miliardi nel lusso, per 1,2 miliardi sui metalli e per 1,5 miliardi sui macchinari. Insomma, si genererà una situazione differenziata per singoli paesi e per singoli sistemi produttivi a seconda di come sono strutturati: l’Europa non è tutta uguale.
Particolarmente rilevante, per Boston Consulting, è la situazione del biopharma: se dovesse essere soggetto all’aliquota piena del 15 per cento, diventerebbe il settore europeo più penalizzato, con un impatto potenziale di circa 22 miliardi di dollari che per l’Italia vuol dire 1,8 miliardi di tariffe doganali in più. Del resto, come osserva Di Domenico, “Siamo a un cambiamento di scala nelle relazioni commerciali con gli Stati Uniti”. Vuol dire che è l’ora di farsene una ragione? “Bisogna trasformare questa sfida in opportunità – suggerisce l’esperto – Serve fare un’analisi dettagliata dei costi aggiuntivi che si subiscono, ma anche quelli dei propri competitor, perché non è detto che l’impatto sia simmetrico”.
In parole povere le imprese dovrebbero cercare di ridurre i dazi cambiando la base fornitori ma anche rivedendo il proprio posizionamento competitivo: “Bisogna applicare le logiche della teoria dei giochi: come cambiano le scelte dei concorrenti se i loro costi aumentano più o meno dei nostri?”.
Non mancano, però, punti da chiarire dell’accordo tra Europa e Stati Uniti come “l’effettiva applicabilità dei 600 miliardi di dollari di investimenti europei annunciati negli Usa”. Chi dovrebbe farli questi investimenti? C’è da dire che anche altre analisti hanno sollevato dubbi su questo punto visto che tale impegno non è previsto a carico degli Stati membri dell’Unione ma dei privati. Ma in che modo l’Unione europea può incidere sulle decisioni di investimento di operatori di mercato? Al di là dei dettagli ancora aperti, secondo Boston Consulting, l’intesa sancisce un cambio di passo nella politica commerciale europea poiché si passa da una logica difensiva a un approccio più proattivo, che chiama in causa la capacità di leggere le nuove regole come leva per accelerare transizioni già in corso: quella digitale, quella ecologica e quella geopolitica. In definitiva, bisognerebbe considerare l’accordo come un punto di partenza e non di arrivo e dell’occasione per l’Europa di migliorare la sua competitività sulla scena internazionale.



un nuovo approccio