lo scenario

I dazi di Trump faranno abbattere sull'Europa il "secondo China shock"

Luciano Capone

Secondo la Bce le nuove barriere degli Usa faranno dirottare le merci cinesi verso l'Eurozona, con un aumento fino al 10% delle importazioni da Pechino: un impatto superiore a quello del 2018

Meno esportazioni verso gli Stati Uniti e più importazioni dalla Cina, è questo lo scenario che si prospetta per l’Unione europea nel nuovo ordine del commercio internazionale delineato Donald Trump. Lo mostra uno studio di un gruppo di economisti della Bce alla luce di ciò che è accaduto con la guerra commerciale del 2018 tra Stati Uniti e Cina. I dazi statunitensi causarono un forte calo dell’export cinese verso gli Stati Uniti e questo eccesso di produzione si riversò sull’Eurozona: tra il 2018 e il 2019, dice la Bce, le importazioni dell’area euro dalla Cina aumentarono del 2-3%. Cosa può succedere questa volta?

Le conseguenze possono essere più rilevanti, soprattutto i dazi imposti da Trump sono molto più alti. Dopo il Liberation day del 2 aprile e la rapida escalation tra i due paesi i dazi Usa sulle importazioni cinesi sono arrivati al 135%, poi il 12 maggio è stato raggiunto un accordo che ha portato Washington a ridurre i dazi al 30% mentre i due governi stanno portando avanti un negoziato che dovrebbe concludersi entro il 12 agosto. Una cosa però è certa: le barriere saranno più alte di prima. La Bce ha così ipotizzato vari scenari per valutare l’impatto del reindirizzamento del flusso cinese verso il Vecchio Continente: la conclusione è che “l’Eurozona potrebbe vedere aumentare le importazioni dalla Cina fino al 10% nel 2026” nel caso più estremo, ovvero con dazi americani al 135%. L’impatto può arrivare, invece, al 4% con i dazi al 30%. 

Tariffe a parte, ci sono altri fattori che secondo la Bce indicano che l’Europa può assorbire maggiormente la deviazione del flusso cinese rispetto al 2018. Il primo, banale, è che i mercati Usa e Ue sono simili e quindi la domanda è analoga. Il secondo è che, rispetto alla guerra commerciale del 2018, i legami nella catena di approvvigionamento si sono intensificati: “Oltre due quinti delle aziende dell’area euro importano attualmente prodotti dalla Cina – scrivono gli economisti della Bce – con una quota particolarmente elevata di importazioni per i rivenditori al dettaglio, ad esempio nei settori dell’abbigliamento, delle calzature e degli elettrodomestici, provenienti dalla Cina. Più in generale, circa il 75% di tutti i prodotti importati dai grandi paesi dell’area euro ha già almeno un fornitore cinese”.

In terzo luogo, le imprese cinesi rispetto al 2017 hanno quasi triplicato la loro presenza in Europa con investimenti nelle reti di vendita e di distribuzione rendendo più agevole un’ulteriore penetrazione. Quarto fattore: il deprezzamento del renminbi cinese rispetto all’euro. Quinto, le imprese cinesi hanno ancora margini di profitto a cui poter rinunciare per dirottare in Europa la sovrapproduzione che non trova sbocco in America. Infine, il governo di Pechino garantisce un sussidio ai produttori interessati a reindirizzare l’export.

L’unico elemento positivo secondo l’analisi degli economisti della Bce è che, nello scenario più estremo, un aumento del 10% delle importazioni cinesi farebbe diminuire l’inflazione di 0,15 punti: ma si tratta di un beneficio davvero minimo rispetto all’impatto devastante che l’inondazione di “made in China” può avere sul sistema produttivo europeo.

Anche perché c’è un altro elemento sottovalutato in questa storia. Gli economisti David Autor e Gordon Hanson, che in passato hanno studiato gli effetti dirompenti del “China shock” sull’occupazione e sui salari nell’industria americana esposta alla concorrenza internazionale, ora avvertono che il “Secondo China shock” sarà peggiore del precedente perché adesso la Cina non compete su produzioni a basso valore aggiunto ma sulla frontiera dell’innovazione tecnologica: aviazione, intelligenza artificiale, telecomunicazioni, microchip, robotica, energia nucleare, quantistica, biotecnologie, energia solare, batterie.

L’ulteriore problema è, secondo Autor e Hanson, che gli Stati Uniti di Trump stanno reagendo a questa sfida nel peggiore dei modi: con i dazi. Il protezionismo era già poco utile a difendere l’industria tessile e quella a basso valore aggiunto, ma di certo “una cosa che i dazi da soli non faranno mai – hanno scritto i due economisti sul New York Times – è rendere gli Stati Uniti un luogo attraente per l’innovazione”. L’Europa, che è ancora meno attraente e innovativa degli Stati Uniti, come si sta preparando al secondo China shock?

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali