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il bilancio
La strategia di Cdp per uscire fuori dalla stagione dei paguri
Lo scambio Tim-Nexi, l’impegno per Open Fiber e Autostrade, le fusioni in vista, i disimpegni possibili. Un bilancio della cassa
Racconta Giuseppe Guzzetti che un tempo paragonava la Cassa depostiti e prestiti a un paguro Bernardo. La conchiglia nella quale s’annidava era il risparmio postale. Gli enti locali chiedevano i mutui alla Cassa che li concedeva prendendo i soldi dai libretti postali. Guzzetti alla guida delle fondazioni bancarie è stato un protagonista della trasformazione della Cdp con la riforma Tremonti del 2003. Diventata una spa, una “market unit”, ha via via ridefinito se stessa e oggi affronta un nuovo rinnovamento nella continuità. La parola chiave potremmo chiamarla exit strategy anche se nel quartier generale di via Goito preferiscono “rotazione del capitale”: in sostanza si tratta di lasciare quel che non è strategico e dove la Cassa non è determinante nella governance, per concentrarsi sulle infrastrutture e gli investimenti in attività strategiche. Un passaggio chiave è stata la cessione del 9,8% di Tim alle Poste insieme allo scambio del 3,78% che Tim aveva in Nexi, il sistema di pagamento che la Cdp considera un asset fondamentale per creare un polo europeo che competa con Mastercard e i colossi americani oggi dominanti. Chi ritiene il matrimonio tra poste e telefoni una nazionalizzazione indiretta, viene respinto con l’argomento che Poste, controllata dal Ministero dell’economia e dalla stessa Cdp, è un “azionista industriale di lungo periodo”. Deutsche Telekom non è per il 27% del governo? Lo stesso vale per Orange in Francia. Si chiude il quarto di secolo della confusa privatizzazione, durante il quale a ogni cambio di governo s’è accompagnato un cambio di proprietà; la rete e la società di servizi tornano alla mano pubblica. La prossima tappa è mettere insieme Open fiber (della quale la Cdp possiede il 60%, il resto è del fondo australiano Macquarie) e FiberCop la società della rete prevalentemente in rame scorporata da Telecom. L’obiettivo è fissato per il 2026, ma il cantiere è aperto: Macquarie vorrebbe le aree nere, quelle delle zone urbane molto coperte e dove la concorrenza è forte, ma che sono anche le più appetibili.
Il dossier è sul tavolo del governo: il fondo KKR è l’azionista numero uno di FiberCop, seguito dal ministero dell’Economia, lo stesso Mef che controlla anche la Cdp. Sciogliere l’intreccio non è facile per la divergenza tra i soci e questo è uno dei compiti più delicati di Cdp equity, la holding di partecipazioni alla quale spettano alcune scelte chiave nella nuova strategia del gruppo. Alla Cassa sono convinti che se ne verrà a capo, in ogni caso Open fiber continuerà a posare i cavi a fibra ottica e a ridisegnare di fatto l’intera mappa del catasto. I ricavi sono in crescita (674,8 milioni l’anno scorso, più 16%), è stato investito un miliardo e mezzo e il piano industriale ha stanziato 10 miliardi fino al 2034 per coprire 20 milioni di famiglie. Ma è un cammino accidentato, il risultato netto resta negativo (364 milioni) i clienti sono 3,3 milioni soltanto e non sono stati ancora prodotti flussi di cassa per ripianare i debiti attorno a 5,6 milioni. La Cdp non ha intenzione di mollare: se tramontasse la rete unica, Open Fiber andrebbe avanti comunque con il sostegno della Cassa decisa a fare la sua parte anche in Autostrade per l’Italia.
E’ l’altra partita molto complessa che richiede impegni finanziari consistenti. Tre sono i nodi da sciogliere: gli investimenti, le concessioni e la divergenza tra l’impostazione di lungo termine della Cdp che ha il 51% e quella più a breve dei due fondi Blackstone e Macquarie azionisti con il 24,5% ciascuno. Ad aprile sono cambiati i vertici (Antonio Turicchi presidente e amministratore delegato Arrigo Giana che finora aveva guidato la metropolitana milanese). Il 90% delle concessioni scadrà nel 2032, sembra lontano, ma non lo è se si pensa alla natura degli investimenti da realizzare. La società calcola che di qui al 2029 servano 36 miliardi, secondo uno studio di Nomisma sono 44. I fondi vogliono risultati, il bilancio dello scorso anno si è chiuso con un miliardo e 27 milioni, 790 milioni destinati ai dividendi. Il governo non intende aumentare i pedaggi, gli azionisti chiedono di allungare le concessioni.
La tentazione di usare la Cdp come nave ospedale ha una lunga storia, dal salvataggio del Banco di Napoli nel 1995-96 alle crisi bancarie del 2016 con il fondo Atlante. Ma oggi più che mai concentrarsi sulle scelte di fondo è una necessità oltre che una scelta. Negli ultimi tre anni si sono razionalizzate molte scelte compiute via via. Sono state cedute quote in società come la farmaceutica Kedrion, nei fondi di investimento FSI e QuattroR, Inalca, Bonifiche Ferraresi, Rocco Forte Hotel. Così si è liberato un miliardo e 100 milioni di euro per sostenere realtà strategiche in linea con la missione di “investitore paziente di lungo termine”. E’ stato sottoscritto pro-quota con 286 milioni di euro l’aumento di capitale di Fincantieri (Cdp Equity possiede il 71,6%), per sostenere l’acquisizione di “Underwater Armament Systems” da Leonardo (i sistemi di difesa sottomarina). Cdp Equity è socio di maggioranza in Diagram, primo polo dell’agritech italiana e ha sostenuto, come azionista, la fusione tra la Saipem e la società norvegese Subsea7 per creare un colosso europeo dell’ingegneria energetica. L’Ansaldo è stata ristrutturata e ora viene ricapitalizzata con 580 milioni di euro; insieme a Enel e Leonardo si impegna nell’ancora incerto campo delle centrali nucleari di nuova generazione. Il gruppo di costruzioni Trevi a rischio liquidazione è stato risanato finanziariamente: Cdp Equity ha preso il posto della famiglia Trevisani che l’aveva fondato nel 1957 e non era più in grado di pagare i debiti e investire.
Ci si sofferma sempre troppo sulle partecipazioni e meno sugli investimenti strutturali? Forse, ma non va dimenticato che la Cassa attraverso il suo braccio finanziario è azionista di ben nove società quotate che rappresentano gran parte della borsa italiana: Eni, Snam, Italgas, Terna, Poste, Saipem, Fincantieri, Open fiber, Diagram, Trevi, Webuild il gruppo delle costruzioni al quale fa capo di fatto circa il 70% delle opere del Pnrr. Lo schema classico d’intervento è Cdp nocciolo duro con fondi di investimento e banche. Ma è pur sempre più stato meno mercato? Alla Cassa non sono d’accordo. Prendiamo le fonti di finanziamento. Il risparmio postale (ammonta a 324 miliardi di euro) resta prevalente, tuttavia uno spazio maggiore è ricoperto dal mercato. Nel 2023 il primo Yankee bond ha raccolto un miliardo di dollari, lo scorso anno è arrivato il Digital bond. Le emissioni da Dublino sono tornate a piazza degli Affari. Negli ultimi tre anni, oltre un miliardo di euro è stato convogliato in Italia. Poi c’è il fondo InvestEu: la Cdp ha raccolto da sola oltre un terzo dei 2,7 miliardi di euro messi a disposizione: è ormai la cinghia di trasmissione delle risorse europee verso l’Italia. Il presidente Giovanni Gorno Tempini e l’amministratore delegato Dario Scannapieco hanno chiuso il bilancio del 2024 con un utile di 3,3 miliardi, il più alto della sua storia.
Il Mef ha incassato un miliardo 790 milioni, il resto alle fondazioni bancarie. Nell’insieme il piano triennale, della cui attuazione è stato responsabile l’attuale vicedirettore generale Fabio Barchiesi, si è chiuso con utile complessivo di 9 miliardi di euro. La Cassa ogni anno genera in media l’1,5% del prodotto lordo italiano, ha contribuito a creare o mantenere 400 mila posti di lavoro, ha finanziato direttamente o attraverso le banche 63 mila imprese e tremila enti pubblici. Il nuovo piano strategico prevede una crescita delle risorse impegnate a 81 miliardi di euro, in grado di attivare investimenti per complessivi 170 miliardi nel triennio, quando non ci sarà più il Pnrr. “Braccio armato” di un nuovo statalismo? O interprete dell’economia mista 5.0? La risposta verrà in gran parte dalla soluzione dei nodi strategici ancora da sciogliere, ma la Cassa che non è più un paguro, resterà pur sempre un centauro, la cui testa, a differenza dalla Mediobanca di Cuccia, è pubblica non privata.