
Uffici di Bitcoin a Istanbul (foto Getty)
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Giancarlo Devasini e Paolo Ardoino, criptoricconi d'Italia
Il guru sfuggente e il loquace azionista della Juve: sono mente e braccio di Tether, la criptovaluta “stabile”. Così primeggiano nel mercato delle monete virtuali. Sicurezza e contenzioni
Guai a dire “Devasini, chi era costui”. Ovvio manzonismo a parte, abbiamo già elaborato la nostra meraviglia quando il suo nome è apparso all’improvviso in cima alla lista dei più ricchi d’Italia. Eppure la domanda resta: chi è costui? Primo, sempre più inarrivabile dopo l’acquisto della Kellogg’s, resta Giovanni Ferrero con un patrimonio di oltre 40 miliardi di dollari, poi c’è Andrea Pignataro con 34 miliardi, anche lui protagonista dell’economia digitale (il Foglio ha pubblicato un ampio ritratto, “Arriva il mago dei dati”, 17 agosto 2023), terzo con poco meno di 10 miliardi ecco Giancarlo Devasini, la cui cornucopia si chiama Tether (in inglese significa legame, come una corda o una catena) ed è campionessa delle monete definite virtuali perché esistono solo in potenza, eppure sono in grado di generare tanta ricchezza, forse effimera, ma reale. Il sogno di Alan Turing s’è avverato in un modo che il geniale matematico inglese forse non avrebbe voluto. In un anno nel mondo sono raddoppiati i magnati delle valute crittografate, oggi se ne calcolano oltre 170 mila.
Devasini, terzo uomo più ricco d’Italia, un tempo si faceva chiamare “Mago Merlino” su internet. Non si conosce il suo indirizzo
La classifica vede in testa il cinese con passaporto canadese Changpeng Zhao con la sua Binance. Laurea in informatica a Montréal, CZ come si fa chiamare, si fa le ossa nella finanza a Tokyo e poi da Bloomberg. Intanto infittisce i legami con la madrepatria anche grazie alla moglie e socia Yi He con un passato nella tv di stato. Nel 2013 si butta sulle criptovalute: vende il proprio appartamento a Shanghai e mette tutti i soldi in bitcoin. La sua piattaforma Binance fa faville, poi viene accusata dalla giustizia americana di riciclare moneta sporca (stati canaglia, gruppi terroristici come Hamas, non poca roba), CZ si dichiara colpevole e lascia i propri incarichi in Binance. Al secondo posto nella classifica dei criptomiliardari c’è Brian Armstrong, californiano che nel 2012 ha fondato Coinbase, quotata in borsa nel 2020. Poi viene Giancarlo Devasini, la mente di Tether oggi guidata dall’informatico Paolo Ardoino, che gravita tra terza e quarta posizione in competizione con Michael J. Saylor di Microstrategy, uno dei più attivi in questa fase. Se mettiamo insieme l’intero pacchetto di mischia aggiungendo Jean-Louis van der Velde, olandese residente a Taiwan, e Stuart Hoegner (entrambi tra i primi quindici in lista), possiamo calcolare che Tether è stata una vera manna.
Ad Ardoino si deve se la piattaforma di Tether è più veloce delle concorrenti. Ma è anche più sicura? Il problema riguarda le riserve
Devasini, da vero guru, si rivela solo agli iniziati. Un tempo, del resto, si faceva chiamare Mago Merlino (soprannome che usa in alcuni siti). Non si conosce il suo indirizzo, si dice São Tomé e Príncipe, l’arcipelago equatoriale africano nel golfo di Guinea, ma forse vive in aereo come Sergio Marchionne. Comunque, gli adepti possono rintracciarlo 24 ore al giorno sette giorni alla settimana. Nato a Torino nel 1964, si è laureato in medicina e ha operato come chirurgo plastico. Dopo due anni il suo lavoro gli è diventato insopportabile. “Tutto sembrava una truffa, un approfittarsi dei capricci delle persone”, ha dichiarato nel 2014 quando ancora appariva in pubblico. Così, abbandonata la chirurgia, si butta nell’elettronica, crea un gruppo che vende computer e loro componenti, supera 100 milioni di euro di ricavi e lo vende poco prima della crisi del 2008. Secondo il Financial Times nel 2007 il gruppo fatturava solo 12 milioni. Microsoft e Toshiba lo accusano di vendere senza appropriata licenza. A febbraio 2008 un incendio distrugge il magazzino e gli uffici. A giugno la capogruppo, Solo spa, viene messa in liquidazione. Per un breve periodo Devasini si dedica al cibo a domicilio, con una società chiamata Delitzia. Compra anche Parkingo, la più vasta rete di parcheggi negli aeroporti europei che, però, si svuotano con la pandemia. Insomma, sembra praticare il famoso precetto di Samuel Beckett: “Fallisci, fallisci ancora, fallisci meglio”. Ma con le criptovalute le cose cambiano verso. Devasini le scopre nel 2012, comincia offrendo dvd e cd a 0,01 bitcoin (pari all’epoca a circa 11 centesimi di dollaro) su un forum dedicato. Finché non nasce la coppia Bitfinex-Tether. La prima è una piattaforma che distribuisce valute digitali (seconda al mondo per bitcoin nel suo portafoglio digitale), l’altra produce stablecoin. La loro esistenza appare sugli schermi dei computer, per rintracciarle bisogna fare il tour dei paradisi fiscali.
Se Devasini è il cervello silenzioso, il braccio loquace, forse persino sovraesposto, è Ardoino, amministratore delegato dal 2023, ma che lavora come esperto in tecnologia fin dalla nascita di Tether. E’ lui che parla per tutti, è lui il frontman, è lui che ha comprato una quota della Juventus per amore di tifoso, ma con la voglia di contare. Nato nel 1984 a Cisano sul Neva in provincia di Savona, laureato a Genova, comincia con la cybersicurezza militare, poi si sposta a Londra dove fonda la start-up Fincluster. Nel 2014 entra in Bitfinex come ingegnere e tre anni dopo diventa il responsabile tecnico di Tether. Si deve in gran parte a lui se la piattaforma è più veloce delle concorrenti. Ma è anche più sicura? Il problema riguarda le riserve: quante sono e dove sono. E’ questo il cruccio delle autorità di vigilanza che le inseguono spesso come in una una caccia al tesoro. Tether, al contrario di Bitcoin, è centralizzata. L’idea di fondo è che sia soprattutto una riserva di valore, non un mezzo di scambio o di investimento. La capitalizzazione arriva a 140 miliardi di dollari, ma è stata più volte messa in discussione. Le riserve sono per una piccola quota in denaro liquido, per una parte in titoli americani, Tether è uno dei maggiori detentori privati del debito pubblico a stelle e strisce. Poi c’è l’oro: Ardoino ha dichiarato di possedere riserve in oro pari a 8 miliardi di dollari custodite nel caveau più sicuro al mondo, in Svizzera dove vive, esattamente a Lugano, facendo la spola con il Salvador. Nel 2017 Tether ha patteggiato 18,5 miliardi di dollari con il procuratore generale di New York per aver dichiarato il falso sulle riserve, insomma non c’erano abbastanza biglietti verdi e i buchi erano coperti grazie agli scambi in bitcoin. Nel 2021 ha chiuso il contenzioso con la commissione americana sui futures per 41 milioni di dollari. Letitia James, procuratore capo di New York, aveva definito Devasini & Co. “individui che operano senza licenza e senza regole negli angoli più oscuri del sistema finanziario”.
Godono della protezione di Lutnick, segretario al Commercio Usa, ma nel 2017 hanno patteggiato 18,5 miliardi con il procuratore di New York
Ardoino ribatte di guidare una delle società più scrutinate al mondo, collabora con 190 forze dell’ordine in 50 paesi tra i quali Israele e ovviamente gli Usa. Trumpiani per interesse ancor prima che per cultura, Devasini e Ardoino godono della protezione di Howard Lutnick, il finanziere diventato segretario al Commercio, gran sostenitore dei dazi. Ferdinando Ametrano, docente all’Università Milano-Bicocca, sostiene che “Tether ha successo perché fa arbitraggio tra diverse borse; bitcoin ha valori diversi, gli operatori comprano dove costa di meno e vendono dove costa di più. Il tutto alla massima velocità”. Uno studio dell’Università del Texas pubblicato nel 2018 dal professor John F. Griffin spiega che bastano 87 ore di trading pari all’un per cento delle attività totali per aumentare del 50 per cento il prezzo del bitcoin.
Il bitcoin come valuta nazionale di El Salvador sembrava una barzelletta. Oggi esistono i cripto-bancomat, sono oltre 1.200 in Europa
L’universo del criptodenaro si divide ormai in due grandi campi: quello dominato da Bitcoin (con Ethereum al seguito) e quello delle stablecoin dove Tether prevale. La stablecoin è basata sulla stabilità, quindi è garantita da riserve certe ancorate al dollaro in perfetta parità: a ogni token (gettone) emesso corrisponde un dollaro in cassa. Il bitcoin non è ancorato a nessun valore reale, nasce come rapporto diretto fra i contraenti, sfugge per sua natura alle banche a cominciare da quelle che battono moneta ufficiale, è un sogno anarchico diventato ricchezza prima virtuale poi reale. Veloce e decentrato come internet, accessibile a tutti senza passare per le banche e lo stato, affidato alla crittografia che stabilisce un rapporto diretto e riservato tra chi compra e chi vende, entrambi legati solo da un algoritmo. Nello stesso tempo vuol essere un rifugio contro l’inflazione, perché si possono generare solo 21 milioni di bitcoin, mentre le banche centrali possono stampare moneta teoricamente senza limiti.
Intesa Sanpaolo è stata la prima banca italiana a rompere il tabù. Il 13 gennaio ha comprato 11 bitcoin per un valore di un miliardo di euro. Una sfida ai regolatori che diffidano e avversano le monete virtuali? Piuttosto, la necessità di non restare indietro. “E’ un test per prepararsi all’eventuale richiesta di investitori sofisticati”, ha spiegato l’amministratore delegato Carlo Messina. BlackRock, azionista di Intesa, è già il più grande soggetto finanziario al mondo a operare nel fantasmagorico mondo delle criptovalute, partorito nel lontano 2008 dall’immaginazione creatrice di uno pseudonimo, Satoshi Nakamoto, uno o probabilmente più americani travestiti da giapponesi. Oscuri padri di tenebrosi figli. Bitcoin ha una quotazione di borsa superiore ai duemila miliardi di dollari, alla pari con Alphabet e Amazon, più di Tesla e Meta. Solo i magnifici tre (Nvidia, Apple e Microsoft) hanno superato i tremila miliardi. E’ una grande bolla piena d’aria pronta a scoppiare, sostengono gli scettici. Mentre i banchieri centrali suonano campanelli d’allarme. “Bitcoin ed Ethereum non sono di regola emesse da alcun operatore, sono prive di valore intrinseco e non generano flussi di reddito come cedole o dividendi. Non vi è alcun soggetto né attività reale o finanziaria che ne assicuri il valore”, ha tuonato un anno fa Fabio Panetta, governatore della Banca d’Italia. Eppure proprio il bitcoin non finisce di stupire: ha superato un valore di 120 mila dollari spinto dalla domanda non più solo dei privati in cerca di effimere ricchezze, ma dei colossi della finanza. Donald Trump ci ha messo del suo, speculando lui e famiglia e proponendo di usare il “denaro immaginario” come riserva accanto al “denaro vero”. Il Congresso s’è inventato una Crypto week e ha dato via libera alle banche, mentre sono in discussione tre proposte di legge per cambiare l’intera regolazione sulle cripto e i suoi derivati come i fondi specializzati che le stanno inglobando di fatto nel sistema. Quando El Salvador ha adottato il bitcoin come valuta nazionale sembrava una barzelletta, oggi esistono anche i cripto-bancomat o meglio distributori Atm: circa 25 mila negli Stati Uniti, oltre 1.200 in Europa, alcune centinaia in Asia.
Anche le monete virtuali hanno già avuto le loro crisi proprio come quelle ufficiali. Il 2022 è stato l’anno nero. Con la pandemia parte della liquidità dei mercati praticamente bloccati si era spostata sulle criptovalute; con l’invasione dell’Ucraina, la crisi del gas, l’inflazione, la liquidità si è ridotta e la moneta del futuro si è comportata come quella del passato. La fuga dalle cripto si è accompagnata anche a veri e propri furti digitali che non hanno risparmiato nemmeno le stablecoin, non così stabili come dice il loro nome. Per la piattaforma Terra è saltato anche l’ancoraggio con il dollaro e i token hanno cominciato a rotolare fuori dal casinò. Celsius, che funzionava come una banca ed erogava prestiti, è saltata. Uno dei principali fondi speculativi, Three Arrow Capital di Singapore, è fallito. Poi c’è stata la mazzata di Ftx, la più grande al mondo, che ha provocato la condanna di Sam Bankman-Fried, cognome che si può tradurre in banchiere fritto (in realtà sono i cognomi del padre e della madre). E come in tutte le crisi da quella dei tulipani nell’Olanda del 1637, c’è stata una selezione. La svolta è avvenuta nel 2024: nel gennaio la Sec, guardiano americano della borsa, ha approvato i primi Etf spot (fondi scambiati in borsa proprio come le azioni) su bitcoin aprendo la porta a grandi fondi pensione, banche e investitori professionali. Intanto Trump, tornato alla Casa Bianca, ha proclamato gli Usa criptocapitale del mondo. Altri paesi, come il Regno Unito e la Cina, hanno dichiarato pubblicamente il possesso di riserve in bitcoin; ormai valgono più del doppio di Visa e JP Morgan Chase messi insieme. Una grande illusione, una fragile bolla? Dalla conchiglia in poi la moneta nasce dal basso, dal mercato, ma se sfugge al vaglio e al controllo delle autorità nazionali e internazionali si spezza la catena attraverso la quale passa l’intera politica economica, dai tassi d’interesse alle imposte, dalla spesa pubblica alla distribuzione del reddito privato, allora si esce dal mercato e si entra nel suk. La Banca d’Italia avverte che non vi sono dati affidabili sulle valute virtuali. Si stima che esse siano oltre 400 nel mondo. Molte di loro hanno smesso di operare poco dopo essere state lanciate, con rilevanti perdite per gli utilizzatori.
Nell’annuale incontro tra banchieri a Sintra in Portogallo, la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde ha discusso a lungo con Ajapal Singh Banga, presidente della Banca mondiale, che dal 2010 al 2020 è stato al vertice di Mastercard, il principale circuito internazionale di pagamenti. Alle perplessità della Lagarde, il banchiere indiano nominato da Joe Biden ha alzato le braccia: non si può andare contro l’innovazione tecnologica, nemmeno nella moneta. Proprio Mastercard, Visa o Nexi sono le prime ad essere minacciate da un sistema che non costa nulla e non ha limiti. Il massimo rischio speculativo riguarda Bitcoin, mentre le stesse banche internazionali ed europee (per esempio Deutsche Bank o Société Générale) emettono già le loro stablecoin. La Bce ha deciso di prendere un’altra strada, l’euro digitale la cui tecnologia non è comparabile a quella cripto. Lorenzo Bini Smaghi sul Foglio ha scritto che “non è un’alternativa credibile”. Può diventare un passo avanti, anche se un passo lento: il regolamento dovrebbe essere approvato l’anno prossimo, poi se tutto fila liscio entra nei nostri portafogli a partire dal 2028. Di qui ad allora chissà quali e quante altre innovazioni verranno introdotte. Se invece la Bce emettesse la propria stablecoin in euro, potrebbe seguire l’onda tecnologica e nello stesso tempo favorire l’unificazione del mercato dei capitali e del debito. Si è aperto un dibattito affascinante, speriamo che non diventi un’altra disputa da scolastica medievale, in perfetta tradizione europea.