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Revisione Ccnl
Dopo la fiammata d'inflazione, il contratto collettivo nazionale ha bisogno di un tagliando
In un paese in cui l’uguaglianza dei salari nelle aziende è un valore profondo e condiviso, serve un correttivo nei ccnl affinché non si svuotino di significato: una clausola inserita per via legislativa che preveda un meccanismo di recupero minimo
Negli ultimi dieci anni, il dibattito sul lavoro si è concentrato sulla necessità di espandere la contrattazione di secondo livello attraverso nuove norme e incentivi fiscali. Si sono fatti passi da gigante, la normativa è ancora quella del 2016 ma l’estensione è migliorata e la soddisfazione di chi la pratica anche. Ma l’Italia è fatta di micro-imprese (oltre 4 milioni di imprese sotto i 10 addetti) e questo significa che non faranno mai contrattazione di secondo livello. Per queste imprese, il contratto collettivo nazionale è l’unico riferimento. Ciò impone un’altra constatazione, ancora più urgente dopo l’onda lunga dell’inflazione 2022–2023: la debolezza del nostro sistema contrattuale non sta nel secondo livello, ma nel primo. La contrattazione collettiva nazionale, dalla riforma del 1993 e poi con gli accordi del 2001 e 2008, ha un obiettivo chiaro: garantire la tenuta del potere d’acquisto dei salari. Un obiettivo che negli ultimi anni, in particolare nei servizi e nel pubblico impiego, è stato clamorosamente mancato.
Non significa che il sistema vada rovesciato. La scelta – del tutto razionale – fatta trent’anni fa fu quella di abbandonare la scala mobile e introdurre un meccanismo di indicizzazione ex ante, cioè basato sull’inflazione prevista, non su quella a consuntivo. Un sistema che deve essere mantenuto, perché tutela i salari nel medio periodo senza scatenare la rincorsa tra prezzi e salari. Tuttavia, quando l’inflazione effettiva eccede sistematicamente quella prevista, il sistema rischia di non funzionare più. E questo è esattamente ciò che è successo tra il 2022 e il 2023. Il risultato è che in molti comparti – i servizi privati molto più che l’industria, dove il sistema ha tenuto – i salari reali sono crollati. L’obiettivo di tutelare il potere d’acquisto non è stato raggiunto né lo sarà nel prossimo futuro. Anche la Banca d’Italia, che è la prima a essere interessata al controllo dell’inflazione, lo ha sottolineato.
Serve un correttivo di legge che potrebbe essere una clausola – inserita per via legislativa all’interno dei contratti collettivi – che preveda, dopo un certo numero di anni di ritardo nella chiusura dei rinnovi o di perdita cumulata del potere d’acquisto, un meccanismo di recupero minimo. Un elemento di garanzia che rafforzi la funzione salariale del contratto nazionale e che, naturalmente, potrebbe essere superato o sostituito da accordi di secondo livello. Ma che, in assenza di tali accordi, eviti che il contratto nazionale si svuoti di significato.
Questo tema è particolarmente evidente oggi anche in uno dei settori storicamente più avanzati dal punto di vista contrattuale: la metalmeccanica. Il contratto collettivo dei metalmeccanici è stato a lungo considerato un modello: chiarezza di regole, tempi certi, struttura salariale trasparente. Ma oggi anche quel contratto stenta a chiudersi, e ciò mette in luce un elemento cruciale che troppo spesso viene sottovalutato: la contrattazione nazionale deve tenere insieme esigenze molto diverse, tra grandi imprese (che possono permettersi aumenti robusti e hanno interesse a evitare scioperi) e piccole aziende (che spesso non sono colpite da scioperi e tendono a resistere agli aumenti salariali). La tensione tra questi due mondi rischia di paralizzare anche i contratti più avanzati.
Tuttavia, non possiamo fare a meno della contrattazione nazionale. Per una ragione culturale prima che economica: l’Italia è un paese in cui l’uguaglianza dei salari nelle aziende è un valore profondo e condiviso. A differenza degli Stati Uniti, dove i contratti individuali dominano e le differenze salariali sono accettate come espressione del mercato, in Italia l’idea che due lavoratori simili possano essere pagati in modo diverso – a parità di mansione – è ampiamente rifiutata. In questo contesto, emerge la seguente dinamica: le imprese spesso preferiscono non assumere, o assumere a condizioni minime, pur di non dover alzare i salari di chi è già in organico. Il contratto nazionale, in questa prospettiva, diventa una sorta di alibi per non affrontare il tema del salario dei nuovi assunti, che dovrebbero essere pagati di più, ma non lo sono perché ciò comporterebbe aumenti a cascata. E’ un corto circuito che blocca l’occupazione, la mobilità e gli aumenti selettivi (che nelle piccole imprese avvengono in nero), e che produce un paradosso tutto italiano: le imprese non trovano lavoratori, ma i salari non crescono.
Senza rinunciare, anzi rilanciando i contratti di secondo livello, serve però rafforzare e correggere i contratti nazionali per un contesto economico che potrebbe avere altri episodi di inflazione e che non può più scaricare tutto l’aggiustamento sul lavoro salariato.