L'ex centrale nucleare Galileo Ferraris a Trino Vercellese (foto Getty)

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Così il nucleare può essere determinante per la decarbonizzazione. Un paper di Bankitalia

Riccardo Carlino

L'analisi di Palazzo Koch vede nell'elettronucleare una risorsa per il raggiungimento degli obiettivi ambientali indicati da Bruxelles. I vantaggi si misurano anche su altri fronti, ma va affrontato il nodo della dipendenza tecnologica e del combustibile

Banca d'Italia entra a gamba tesa sul dibattito del nucleare, analizzando quali effetti produrrebbe una sua possibile reintroduzione nel mix energetico nazionale. Il paper “L'atomo fuggente: analisi di un possibile ritorno al nucleare in Italia" mette in fila vantaggi e punti ancora da chiarire, sottolineando come il contributo principale del ricorso al nucleare sia proprio quello del raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione, oggi molto più ambiziosi di quanto non lo fossero nel giugno 2011, quando un referendum bloccò un nuovo programma di sviluppo nucleare in Italia grazie a una vittoria quasi plebiscitaria, pochi mesi dopo l'incidente di Fukushima di marzo. 

La tabella di marcia di Bruxelles non ammette sbavature. Il Green deal europeo lanciato nel 2019 punta a ridurre le emissioni di gas serra dell'Ue di almeno il 55 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, fino ad azzerarle nel 2050. Come sottolinea Bankitalia, tra il 1971 e il 2023, la produzione di energia da fonte nucleare nel mondo è riuscita a evitare l’emissione di 72 gigatonnellate di co2 (pur rappresentando meno del 10 per cento della produzione di elettricità), e oggi i reattori a disposizione ci fanno risparmiare circa il 3 per cento delle emissioni complessive di gas serra prodotte annualmente a livello mondiale. Ai vantaggi diretti si accompagnano quelli secondari: un maggior ricorso al nucleare permetterebbe anche di ridurre il commercio marittimo, responsabile del 3 per cento delle emissioni globali e dedicato, per un terzo della sua capacità, proprio al trasporto di combustibili fossili. 

Questi vantaggi, però, li avremmo potuti avere anche in passato. Stando al report, senza il referendum del 1987 e con le tre centrali di Caorso, Trino e Latina operative (a cui si sarebbe aggiunta di lì a poco anche quella di Montalto di Castro), i 3 gigawatt di energia che avrebbero prodotto “sarebbero stati sufficienti a ridurre l’intensità carbonica della produzione elettrica italiana del 22 per cento”, evitando così circa 477 milioni di tonnellate di co2 equivalente tra il 1990 e il 2016

A supporto del nucleare c'è anche la sua stabilità. Tipicamente, le fonti energetiche rinnovabili come il solare e l'eolico sono intermittenti, in quanto funzionano solo in presenza di sole e di vento. Ciò incide sulla loro flessibilità e sulla sicurezza dell'intera rete, oltre che sui livelli di produzione elettrica. Tali limitazioni non sussistono per quanto riguarda il nucleare, che invece – osservano gli autori – presenta gli stessi vantaggi delle fonti fossili in termini di potenza minima necessaria da fornire in modo continuo al sistema elettrico, ma anche di flessibilità e localizzazione. Specialmente in relazioni ad alcune nuove tecnologie modulari in progettazione, come gli Advanced modular reactors (Amr) e gli Small modular reactors (Smr), le cui dimensioni ridotte garantirebbero vantaggi anche a livello di consumo del suolo. 

Oltre al lato ambientale, i benefici potrebbero vedersi anche in bolletta. Se da un lato infatti l'elettronucleare rischia di non avere impatti significativi nel contenimento del prezzo finale, potrebbe averlo sulla sua volatilità, nota il paper. Una riforma delle regole del mercato elettrico approvata lo scorso aprile dall'Europarlamento promuove infatti il ricorso a contratti a lungo termine, grazie al quale l’introduzione del nucleare (in sostituzione delle fonti fossili che difficilmente potranno beneficiarne) potrebbe ridurre le oscillazioni di prezzo, “specie per i grandi consumatori industriali che li sottoscriveranno”, si legge nel documento. Per adesso, l'Autorità di regolazione dell’energia (Arera) vede di buon occhio la riapertura del dibattito sulla tecnologia nucleare da parte del governo: “Non perché sia possibile nel breve una rilevante e significativa penetrazione nel mix, ma perché anche lì soffia il vento dell'innovazione – ha detto ieri il presidente Stefano Besseghini, in occasione della presentazione della Relazione annuale 2025 – un paese industrializzato, rilevante, con la competenza tecnico scientifica dell'Italia, non può non avere un contesto normativo in grado di agevolare lo sviluppo delle soluzioni innovative in ogni settore, sia che provengano da nuovi breakthrough tecnologici o dalla evoluzione di tecnologie note”.

Oltre alle luci, non mancano di certo i punti più dubbi. Sul ritorno del nucleare in Italia ronzano ancora interrogativi riguardo l'eccessiva concentrazione in pochi impianti e in gran parte in paesi ad alto rischio geopolitico (Russia fra tutte) delle fasi di processamento, arricchimento e preparazione del combustibile per la produzione nucleare. Così come l'alta dipendenza tecnologica, relativa alla realizzazione degli impianti, principalmente verso Mosca e Pechino. Di fronte a simili nodi, dice Bankitalia, “bisognerebbe mettere a sistema le risorse esistenti, in termini di capitale umano e imprese, raccordarle con il sistema formativo e universitario, e avviare un dialogo con le (poche) imprese occidentali che sono ancora attive nella costruzione di centrali, per sviluppare e acquisire il necessario know-how e ridurre la dipendenza da paesi geo-politicamente più distanti”.

 

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