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La grande corsa al risparmio degli italiani
Fondi globali, banche in guerra e assicurazioni. Ecco gli intrecci e le alleanze nella finanza che cambia
Gli italiani non amano il rischio, sono attaccati alla roba e stanno lontani dalla turbofinanza. Magari un tempo era così, oggi dobbiamo abbandonare anche questi luoghi comuni: una parte sempre maggiore del reddito disponibile viene impiegato in fondi d’investimento, azioni, titoli privati. Il rapporto ha superato la media europea e persino il Regno Unito; sembra strano, ma è vero se lo scrive la Banca d’Italia nella sua ultima relazione annuale. Le attività finanziarie nel loro insieme sono cresciute del 4,3 per cento in termini nominali, arrivando a seimila e trenta miliardi di euro, quasi tre volte il prodotto lordo di un anno e due volte il debito pubblico accumulato. Hanno contribuito sia la modesta espansione degli investimenti, sospinta dal maggiore tasso di risparmio, sia la rivalutazione degli attivi, in particolare le quote di fondi comuni, le partecipazioni estere e i titoli di impresa. Se poi consideriamo l’intera ricchezza, compresa quella immobiliare, ci si avvicina ai 11.700 miliardi (fonte Istat insieme a Bankitalia) e non si è ridotta nemmeno nel 2011, l’anno nero in cui il debito pubblico stava per saltare. Ha continuato a crescere fino a 8,3 volte il reddito disponibile, in linea con la Francia e più della Germania. Questa opulenza è mal distribuita, è concentrata in un pugno di ricchi? Anche, ma non si tratta di una piccola manciata di crapuloni. In ogni caso, ancora una volta i fatti smentiscono la propaganda. “Ricchi per sempre?”, si chiede Pierluigi Ciocca nella sua cavalcata storica sull’economia italiana. Forse no, ma per ora gli italiani, nel loro insieme, lo sono.
Fra il 2010 e il 2024 il valore delle attività finanziarie delle famiglie è aumentato di quasi il 57 per cento con uno spostamento verso il risparmio gestito: la quota relativa è salita dal 22,4 al 33,0 per cento del totale delle attività. Ciò ha favorito l’espansione delle attività estere: nel 2023, ultimo anno per il quale il dato è disponibile, si è collocata intorno al 60 per cento, dal 45 circa nel 2014. Dunque c’è una fuga del risparmio? La posta, quei seimila e rotti miliardi, non è piccola, in tanti ne vogliono una fetta. In Italia si sta svolgendo una partita ogni giorno più complicata, talvolta confusa. Ci sono già i grandi fondi per lo più americani con qualche inglese e francese. Si sono aggiunte le compagnie di assicurazioni italiane (Generali e Unipol in particolare). Sono in campo azionisti di riguardo come la Delfin, guidata da Francesco Milleri, e Francesco Gaetano Caltagirone. C’è un David senese, il Montepaschi, che cerca spazio tra i Golia. E’ arrivata la cavalleria Unicredit guidata da Andrea Orcel, mentre dal fortino assediato di piazzetta Cuccia Alberto Nagel prepara il suo gambetto: sacrifica la quota chiave nelle Generali per prendersi la banca creata una decina di anni fa dal Leone di Trieste. Una mossa difensiva, certo, ma non solo: Mediobanca vuole saltare in corsa sul treno della nuova rivoluzione finanziaria che sta spiazzando tutti. Negli anni 80 caddero le barriere tra banche commerciali e banche d’affari, l’Italia si adeguò dieci anni dopo. Poi arrivarono i fondi. Oggi scendono le paratie anche con le assicurazioni. Il mestiere del banchiere non è più raccogliere depositi e dare credito, fare da “vigile ai crocicchi dell’economia” come disse Raffaele Mattioli nel lontanissimo 1961, ma gestire la ricchezza che gira come una trottola per il mondo intero perché il capitale non conosce confini.
Fintech, criptovalute, fondi private, equity, attivi, passivi, un nuovo modo di guardare al risparmio e agli investimenti, tutto ciò ha un forte impatto non solo economico, ma sociale e politico: la mappa è sempre in movimento come quella del Malandrino in Harry Potter. Nel 2024 i dieci principali fondi statunitensi gestivano attivi per quasi 48 mila miliardi di dollari, con Vanguard, BlackRock e State Street che da soli controllavano oltre 22 mila miliardi, tanto quanto tutte le banche americane (i dati sono della Federal Reserve). La rincorsa comincia con la crisi del 2008, quando gli utili dei fondi erano di 12 mila miliardi, una cifra comparabile a quella delle banche. Dal 2019, gran parte dello stesso sistema bancario statunitense ha come principali azionisti proprio i grandi fondi: Vanguard, BlackRock e State Street detengono il 20 per cento della JP Morgan. Anche le azioni delle banche italiane sono in mano ai fondi: Unicredit, Intesa, Mediobanca, non si sottraggono le stesse popolari il cui assetto è cambiato con la riforma del 2015, da quella di Milano diventata Bpm e chiesta in sposa da Unicredit, alla Bper dell’Emilia Romagna (controllata da Unipol) che ha il via libera della Consob per fondersi con quella di Sondrio. La matassa è ancora più intricata: i fondi più grandi controllano quelli più piccoli e attraverso partecipazioni incrociate si controllano a vicenda. BlackRock è posseduto per il 14 per cento da Vanguard, per il 6,7 per cento dalla stessa BlackRock e per un altro 4,5 per cento da State Street. Lo stesso schema a tre si ripete per Vanguard e State Street, un intreccio che scavalca le regole di borsa. E non finisce qui, Big Money infatti abbraccia anche Big Tech. I soliti Vanguard, BlackRock e State Street, sono i principali azionisti di Nvidia, Intel, Amd, Broadcom, Qualcomm con quote che vanno tra il 20 e il 25 per cento.
La matassa è ancora più intricata: i fondi più grandi controllano quelli più piccoli e attraverso partecipazioni incrociate si controllano a vicenda
Mentre le banche tradizionali si alimentano con i depositi dei clienti per erogare credito, i nuovi soggetti attingono soprattutto alla ricchezza accumulata nel tempo o creata dal gioco degli scambi diventato con l’introduzione del criptodenaro ancor più frenetico e pericoloso. Vanguard ha fatto successo con i fondi che replicano, non anticipano il mercato, sono chiamati passivi, costano meno e rendono di più. Intanto si stringe l’abbraccio con le assicurazioni. Le polizze vita sono un modo per sfuggire alla incertezza del momento e diventano tra le fonti principali alle quali attingere. Perché mai prendere a prestito il denaro bancario che, anche quando gli interessi sono bassi, deve comunque essere restituito in tempi brevi; l’assicurazione sulla vita si tiene a lungo, spesso fino al cruciale trapasso, è ottima non tanto per giocare in borsa quanto per finanziare un’attività produttiva.
Anche la battaglia finanziaria scoppiata in Italia va inquadrata in queste travolgenti novità. Gli schieramenti sono complicati, tra espansioni dell’ego, ambizioni, voglia di creare un sistema di potere, un complesso bancario-industriale i cui fili finiscono in mano alla politica. Ma si possono anche individuare due logiche industriali. La prima è far crescere le banche tradizionali attraverso fusioni e acquisizioni, chiamiamolo “modello terzo polo” anche se si estende alla Unicredit che, prendendo la Bpm, potrebbe espandere la sua presenza territoriale in Italia dove è superata da Intesa Sanpaolo (in Germania dove è già presente, con il controllo della Commerzbank può diventare la numero uno). La seconda è entrare nel nuovo campo da gioco per non lasciarsi sfuggire fette sempre più ampie della ricchezza. Non si tratta di impiegarla tutta entro i confini nazionali come vorrebbero i sovranisti (a meno di non essere espropriati tipo l’oro per la patria, i clienti vogliono usarla nel modo più vantaggioso), ma di farsi spazio tra i colossi d’oltre confine.
In quale delle due logiche si può collocare il duello conradiano per le Generali? Considerata (forse sempre più a torto) sia il salvadanaio degli italiani sia il polmone che dà respiro al debito pubblico comprando titoli di stato, la compagnia è controllata dalla Mediobanca con il 13 per cento e la via per prenderla a minor costo possibile passa proprio attraverso piazzetta Cuccia. Delfin e Caltagirone sono azionisti di Mps, di Mediobanca e delle Generali. Se la banca senese acquisisce quella milanese, si arriva d’amblais a Trieste. A questo punto, Mediobanca offre tutta la sua partecipazione nella compagnia triestina in cambio di Banca Generali, un’operazione da 6,3 miliardi di euro. In questo modo diventa molto più grande, probabilmente troppo per Mps costretta ad aumentare in modo consistente il capitale. Mediobanca prima della fusione vale in borsa 16 miliardi di euro, il Montepaschi 9 miliardi. Gli azionisti privati e il Tesoro (alias il contribuente) dovrebbero pagare carissimo il loro bersaglio.
Il divorzio da Generali può giovare a entrambi i coniugi, il rapporto è ormai logoro, anche se sempre ingombrante. La compagnia triestina non avrebbe più nel suo capitale quella che molti considerano una palla al piede (era questa tra l’altro l’opinione dello stesso Leonardo Del Vecchio). Mediobanca, a sua volta, cambia pelle e in un colpo solo piazzetta Cuccia raddoppia la massa gestita da poco più di 100 a oltre 200 miliardi di euro; avrebbe impiegato dieci anni per arrivare a tanto.
Il divorzio da Generali può giovare a entrambi i coniugi, il rapporto è ormai logoro, anche se sempre ingombrante
L’idea era già matura negli ultimi anni di Enrico Cuccia, ma il successore “Vincenzino” Maranghi, garante della continuità, l’aveva liquidata così: “Investire soldi dei privati è una grande responsabilità e la mattina quando mi faccio la barba non voglio vergognarmi”. Un timido tentativo era stato fatto già nel 2001 con Banca Esperia insieme a Mediolanum, diventata poi nel 2017 la divisione private banking di Mediobanca. Rimasta senza il triplice polmone che garantiva la raccolta di denaro con la Commerciale, il Credito italiano e il Banco di Roma, bisognava trovare nuovo alimento e nel 2008 nasce Chebanca! assorbita l’anno scorso. Nessuno, però, aveva il coraggio di tagliare il cordone ombelicale con le Generali, nemmeno dopo che la Mediobanca aveva ceduto tutte le altre partecipazioni messe insieme nel mezzo secolo di Cuccia.
Una volta sciolto il patto di sindacato che con oltre il 50 per cento del capitale vincolava gli azionisti storici, soci rilevanti come Del Vecchio cominciano a mordere il freno, chiedono una svolta, lamentano che ormai la rendita dorata delle assicurazioni è diventata la principale fonte di guadagni. La crisi finanziaria e il crac Ligresti che espone Mediobanca per oltre un miliardo di euro, rendono prioritario rimettere a posto i conti. E mentre si chiudono vecchie porte se ne aprono di nuove: insieme all’attività tradizionale di banca d’investimento crescono il credito al consumo con Compass e soprattutto il wealth management, cioè la gestione dei patrimoni che oggi sta diventando anche in Italia il mestiere principale di chi intermedia la moneta e investe il denaro dei clienti. Lo scarto tra tassi attivi e passivi è una fonte di guadagni oscillante e ormai inaridita. Le commissioni sui servizi bancari non bastano. Far lievitare quella torta di seimila miliardi e non lasciarla come manomorta finanziaria, è la vera frontiera di questa fase. In Italia il primato spetta a Fideuram che fa capo a Intesa Sanpaolo, si difende il Montepaschi, mentre Unicredit ha venduto ogni “fabbrica di prodotto finanziario”, delegando tutto ad Amundi il gruppo francese controllato dal Crédit Agricole, leader tra gli europei con oltre due miliardi di massa monetaria gestita, seguito a distanza da Allianz e UBS (BlackRock e Vanguard sono comunque cinque volte più grandi).
Acquisire Banca Generali è la vera svolta per la banca d’affari in cerca di nuovi affari. Già diventata prioritaria, la gestione patrimoniale diventerà prevalente, ha spiegato Nagel (che proprio oggi compie 60 anni); il futuro si gioca tra questi due aggettivi. Restano il credito al consumo e la banca d’investimento che oggi dividono in tre parti quasi uguali il giro d’affari. La proposta era arrivata sul tavolo di Donnet poco prima che scoppiasse la pandemia. Il boom degli ultimi due anni, spinto anche dal rialzo dei tassi d’interesse, ha fatto crescere i valori di borsa provocando un allineamento degli astri: il pacchetto dell’intera compagnia nel portafoglio di Mediobanca vale adesso quanto l’intera Banca Generali. Il mini patto, cioè l’accordo di consultazione che riunisce l’11,87 per cento del capitale, ha detto sì: ne fanno parte Unicredit, Bolloré, Mediolanum, Benetton, Fin.Priv. (dentro la quale c’è anche Generali), l’Italmobiliare dei Pesenti, la Fininvest dei Berlusconi. Caltagirone è contrario e ha chiesto alla Consob di rinviare sine die l’assemblea del prossimo lunedì 16. Partono accuse di manovre occulte a piazzetta Cuccia, mentre Mediobanca denuncia gli “evidenti intrecci azionari” di Caltagirone e Delfin. Milleri è apparso più disponibile e ha dichiarato che “l’operazione non ostacola i piani di Mps”, un messaggio di appeasement pur senza voltare le spalle al suo attuale alleato.
Ma che cosa ne pensa il Leone di Trieste? Si sente amputato di una gamba oppure liberato dalla “zavorra Mediobanca”? In una lunga intervista alla Repubblica Donnet ha spiegato che privarsi di un asset non strategico e stringere un accordo industriale con un nuovo polo del risparmio gestito che distribuisca i prodotti delle Generali, è una buona idea. In ogni caso, deciderà il consiglio di amministrazione. Il manager francese (diventato anche italiano) ha preso di petto Caltagirone il quale a sua volta aveva etichettato come “sciagurato progetto” l’accordo con la società Natixis per gestire insieme l’asset management (1.300 miliardi dalla società transalpina, 650 da quella italiana). “Smantella” le Generali, secondo i suoi oppositori tra i quali il governo. L’Ivass il guardiano delle assicurazioni ha chiesto ulteriori informazioni sulla reale creazione di valore e soprattutto sulla governance: chi comanderà alla lunga, gli italiani che ci mettono la faccia centenaria del Leone o i francesi che ci mettono più soldi? Per ora ci saranno un presidente di Natixis e un vice delle Generali, mentre per l’amministratore delegato avverrà il contrario. Quanto ai soldi, anch’essi si pesano, non si contano soltanto. Il governatore Panetta ha detto che le operazioni in corso debbono creare valore. “Le aggregazioni rappresentano un delicato momento di discontinuità nella vita degli intermediari. Devono servire a rafforzarli, e a questo scopo è necessario che siano ben concepite e volte unicamente alla creazione di valore”. Dove unicamente è l’avverbio chiave. Valore per chi? Un grande quesito, al quale non c’è risposta ex ante: nessun piano o prospetto, nessuna slide può sostituirsi all’onere della prova.