"Non pensare al default!". Gli Usa e il problema del debito

Luciano Capone

“Gli Stati Uniti non andranno mai in default", dice Bessent. Ma il fatto che il segreatario al Tesoro ne parli dimostra che il problema esiste, proprio a causa delle politiche di Trump

Una ventina di anni fa, il linguista George Lakoff spiegò nel bestseller “Non pensare all’elefante!” il potere evocativo delle parole: non bisogna mai usare i termini dei propri avversari, perché si rievocano le stesse idee rafforzandole. Il messaggio all’epoca era rivolto ai democratici, che da una decina di anni erano imprigionati nella narrativa repubblicana. Ma oggi, quel testo sarebbe molto utile all’Amministrazione Trump che invece pare prigioniera dalla propria narrazione.
    
“Gli Stati Uniti non andranno mai in default, non accadrà mai”, ha detto durante un’intervista il segretario al Tesoro Scott Bessent. Come quando si dice di non pensare all’elefante la prima cosa che viene in mente è proprio un elefante, così evocando il default – anche solo per smentirne la possibilità – Bessent non fa che alimentare le incertezze sulla sostenibilità del debito americano. Lo sanno benissimo paesi ad alto debito, come l’Italia o la Grecia, che di certe cose non si parla proprio per non allarmare o insospettire i mercati. Non è infatti un caso che, invece, quando se ne parla è proprio perché l’eventualità non è affatto così remota. È, ad esempio, ciò che accadeva durante il governo Conte I, il ministro dell’Economia Giovanni Tria era di tanto in tanto costretto a dichiarare che l’Italia non sarebbe uscita dall’euro.

Fino a pochi mesi fa nessuno al mondo parlava del fallimento degli Stati Uniti come di una possibilità concreta. Non se ne discuteva affatto. Ora invece è un argomento al centro del dibattito pubblico, ai suoi massimi livelli, tanto che il segretario al Tesoro è costretto a dire che non accadrà mai. Proprio perché quell’ipotesi non appartiene al regno dell’impossibile. Esattamente come il ministro Tria rassicurava i mercati sul fatto che l’Italia non sarebbe mai uscita dall’euro: ora il ministro Giorgetti non dice nulla sul tema né qualcuno gli chiede di farlo, proprio perché non ce n’è bisogno.

Nei giorni scorsi Jamie Dimon, il ceo di JP Morgan, ha detto che nei prossimi anni ci sarà un “crack” nel mercato obbligazionario a causa del crescente debito pubblico americano. La profezia del capo della più grande banca statunitense arriva mentre Donald Trump cerca di far passare il suo “Big beautiful bill”, il pacchetto di tagli fiscali che, se approvato anche dal Senato, aggiungerà dai 3 ai 4 mila miliardi di dollari di deficit nei prossimi dieci anni. 

Secondo il Congressional Budget Office (Cbo), l’organismo di controllo dei conti pubblici, il deficit di bilancio federale resterà altissimo per i prossimi trent’anni – dal -6,4% del 2024 al -7,3% del 2055 (la media dei trent’anni precedenti 1995-2024 è stata -3,9%) – gonfiando il debito pubblico che già nel 2029 supererà il picco storico del 107% del pil raggiunto con la Seconda guerra mondiale. E questo senza considerare il Big beautiful bill di Trump che allargherà ulteriormente il disavanzo di altri tremila miliardi di dollari.

Non è un caso che circa un mese fa l’agenzia di rating Moody’s ha tolto, per la prima volta nella sua storia, la tripla A al debito statunitense. I mercati hanno iniziato a prezzare diversamente il rischio americano, facendo salire il rendimento sui titoli del Tesoro trentennali attorno al 5% (erano circa al 4% all’inizio del 2024). Secondo gli ultimi dati del Cbo, la spesa per interessi nei primi sette mesi dell’anno fiscale è aumentata di 58 miliardi di dollari (+11%) proprio per l’aumento dei tassi di interesse che, peraltro, si pagano su un debito pubblico sempre più grande.

Ma a preoccupare gli investitori internazionali non c’è solo una traiettoria fiscale insostenibile in perfetta continuità con la politica di bilancio dell’Amministrazione Biden. C’è anche un di più di rischio politico dovuto proprio alle dichiarazioni di importanti esponenti dell’Amministrazione Trump (un po’ come accadeva in Italia per effetto delle dichiarazioni degli esponenti No euro del governo Conte). Stephen Miran, che è il capo del Council of Economic Advisers di Trump (ovvero il team di economisti che elabora la politica economica del presidente), ha teorizzato che il ruolo di valuta di riserva del dollaro non sarebbe un “esorbitante privilegio” ma un peso per l’economia americana perché una valuta troppo forte alimenta il deficit commerciale.

Pertanto, la proposta di Miran è quella di “convincere” – ovvero costringere – i creditori esteri ad accettare una sostituzione dei titoli del Tesoro ora in possesso con debito a 50 o 100 anni. Si tratta, in sostanza di una “ristrutturazione” del debito: ovvero di un default. Un’altra proposta di Miran è quella di imporre una “user fee” – una specie di commissione, ovvero di tassa – sui detentori di titoli americani. Anche in questo caso si tratta di una ristrutturazione del debito, ovvero di un default. In pratica, oltre alle condizioni preoccupanti del bilancio americano, emerge anche una volontà politica di ripudiare (almeno in parte) il debito.

I mercati hanno ovviamente reagito. Secondo uno studio di un gruppo di economisti dell'università di Stanford (“Dollar Upheaval: This Time is Different”), dopo l’annuncio dei dazi di Trump il dollaro si è deprezzato del 6,5%, nonostante l’aumento dei tassi di interesse e la volatilità del mercato: “La risposta del mercato suggerisce che gli investitori hanno iniziato a mettere in discussione il ruolo del dollaro come valuta di riserva”, scrivono gli autori. È accaduto proprio ciò che Miran auspicava, ma le conseguenze non sono così positive come immaginava. Tanto che ora Bessent è costretto a dire che gli Stati Uniti non faranno default: un’eventualità a cui nessuno nel mondo pensava, prima che Trump e il suo team costringessero tutti a pensarci.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali