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agenda anti bufale
Lo show dell'Italia reale che asfalta finalmente quella percepita. Dietro ai dati Istat
Smascherare i populismi si può. La necessità di provare a dribblare le emergenze farlocche e concentrarsi sulle emergenze reali. Cosa dice davvero del nostro paese il rapporto annuale dell'stituto nazionale di statistica
L’opinione pubblica italiana, lo sappiamo, è uno strano animale da decifrare. E nella sua bizzarria semplicemente spettacolare, l’opinione pubblica, nel nostro paese, spesso si fa strada, nella quotidianità, come se fosse un fiume arricchito da due affluenti. Un primo affluente coincide con il flusso di notizie che arriva a valle dalla sorgente dell’Italia percepita. Un secondo affluente coincide con il flusso di notizie che arriva a valle dalla sorgente dell’Italia reale. Per ragioni misteriose, lo scorrere del fiume principale, ovvero il flusso del mainstream, tende a trasformare l’acqua che arriva dei due affluenti in un miscuglio simile a un’emulsione: da una parte resta il percepito, con un colore che risalta all’occhio, dall’altra parte finisce il reale, con un colore che spesso sfugge anche allo sguardo dell’osservatore più attento.
Il rapporto annuale presentato ieri dall’Istat sull’Italia del 2025 ha il merito assoluto di prosciugare per un istante il flusso di notizie che inonda ogni giorno il nostro paese a colpi di emergenze percepite, mettendo in risalto le notizie che riguardano l’Italia reale – che a causa di una incapacità strutturale del sistema mediatico del nostro paese contano sempre meno rispetto a quelle che riguardano l’Italia percepita. E osservare l’Italia reale, un’Italia fatta di numeri, di dati, di trend, di statistiche, è un esercizio utile per provare a smontare una serie di falsi miti, messi in circolo spesso dai populismi di destra e di sinistra, che riguardano un racconto distorto del nostro paese, in cui le emergenze reali contano infinitamente meno rispetto a quelle percepite.
L’Italia che spesso non vogliamo vedere non è solo quella dove il lavoro cresce (+352 mila occupati nel 2024). Non è solo quella dove il saldo primario torna in avanzo dopo quattro anni (da -3,6 a +0,4 per cento del pil). Non è solo quella dove l’attenzione ai temi ambientali è più forte di quanto appaia nelle cronache quotidiane (l’energia rinnovabile è triplicata dal 2005 al 2024, le emissioni climalternanti sono scese del 32 per cento). Non è solo quella dove l’aumento delle retribuzioni nel privato vi è stato davvero (+4,6 per cento nell’industria, +3,4 nei servizi). Non è solo quella dove i salari nominali aumentano più di quanto si crede (nel 2024, sono aumentati del 3,1 per cento, superando l’inflazione, +1,1 per cento). Non è solo quella che vede diminuire il lavoro precario (nel 2024 sono aumentati del 3,3 per cento i lavoratori a tempo indeterminato, mentre sono diminuiti del 6,8 per cento quelli a termine).
I dati Istat raccontano molto altro.
Raccontano un’Italia che tra il 2019 e il 2024 ha avuto un pil reale cresciuto del 5,6 per cento, contro il 3,6 della Francia e lo 0,3 della Germania. Raccontano di un livello di disoccupazione (6 per cento) che si trova a una quota più bassa che in Francia (7,3 per cento) o Spagna (10,9 per cento). Raccontano che il rischio di povertà nel 2023 era al 18,9 per cento, in calo rispetto al 28,4 per cento del 2015. Raccontano che l’emergenza xenofobia deve fare i conti con un dato di realtà che indica un numero di cittadinanze italiane in aumento vertiginoso (nel 2021, le acquisizioni di cittadinanza italiana sono state 121.457). Nel 2024, il numero è salito a 217.000: più 78,6 per cento). Raccontano questo e raccontano molto altro.
Raccontano che l’Italia che si concentra con il pilota automatico sui problemi percepiti lo fa anche perché i problemi reali richiederebbero uno sforzo in più per passare dalla cultura del capro espiatorio a quella della risoluzione dei problemi. E così, spesso, osservando l’affluente sbagliato, si fanno scelte sbagliate. Si sceglie di non dedicare tempo sufficiente al grande tabù italiano, la denatalità, e l’Istat ricorda che l’Italia da questo punto di vista ha la più rapida decrescita naturale d’Europa. Si sceglie di chiudere gli occhi sul fatto che l’invecchiamento dei lavoratori porta l’Italia ad avere il 44 per cento di imprenditori con più di sessant’anni. Si sceglie di chiudere gli occhi di fronte a una verità storica che l’Italia ha deciso di rimuovere, come quella che attesta che la produttività totale dei fattori è in calo anche qui in modo preoccupante (nel 2024 la produttività per ora lavorata è scesa dell’1,4 per cento, quella per occupato dello 0,9).
Spostarsi dall’Italia dei problemi percepiti all’Italia dei problemi reali è utile per provare a dribblare le emergenze farlocche e concentrarsi sulle emergenze reali. E di fronte a questo esercizio non si può non notare quanti siano i falsi miti alimentati dalla propaganda populista smentiti dalla realtà. E così, per dirne una, sarebbe utile far notare a chi sostiene che il problema dell’Italia sono i vincoli europei che il ritorno dell’avanzo primario è dovuto anche al fatto che gli investimenti pubblici nel 2024 sono aumentati del 14 per cento grazie al Recovery europeo. E così, per dirne un’altra, sarebbe utile ricordare che le esportazioni italiane, il famoso made in Italy, è trainato non dall’Italia in formato slow food ma dalla manifattura ad alta tecnologia, dai settori chimico e farmaceutico, che sono quelli che trainano maggiormente le nostre esportazioni. E così, per dirne un’altra ancora, piuttosto che alzare le barricate contro le multinazionali, in nome della difesa del piccolo che è sempre uguale a bello, bisognerebbe avere il coraggio di dire che sono le grandi imprese e le multinazionali a trainare la ricerca e lo sviluppo, e dunque l’innovazione, e dunque l’export tecnologico e dunque la produttività (le multinazionali brutte e cattive non sono lì ad aggredire la sovranità del nostro paese ma sono il principale motore di ricerca e sviluppo del paese, generando il 60 per cento della R&S manifatturiera ad alta tecnologia in Italia, oltre che il 68 per cento delle esportazioni di prodotti ad alta tecnologia). Luoghi comuni smontati, allarmismi ridimensionati, chiacchiere aggredite dalla realtà. Il rapporto Istat, sul 2025, è una perfetta fotografia sui danni generati dal populismo in Italia. C’è un populismo pericoloso che crea allarmismo, che contribuisce a mettere in rilievo un paese che non c’è. E c’è un populismo pericoloso che non solo crea allarmismi ma tende a trasformare i problemi reali in problemi secondari e i problemi percepiti in problemi primari, essendo incapace non solo di riconoscere il giusto affluente su cui concentrarsi ma anche di saper trovare un’alternativa alla cultura del capro espiatorio, un esercizio che aiuta a individuare con una certa precisione quella che un tempo, il compianto Giuseppe Prezzolini, definiva la virtù degli imbecilli.