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Dieci anni di Jobs Act: numeri da ricordare

Lorenzo Borga

Il referendum quando la precarietà non sembra la prima preoccupazione per la maggioranza degli italiani

Il dibattito sui referendum abrogativi in Italia è spesso privo di dati che permettano agli elettori di formarsi un’opinione informata. Sono centrali, piuttosto, le questioni di principio e le scelte etiche che tuttavia non sempre sono sufficienti per fare una scelta consapevole. Ancor più di quanto già non accada nello sclerotico dibattito italiano. A differenza di quanto previsto per i referendum confermativi, che seguono anni di audizioni e confronti in Parlamento, non è previsto il coinvolgimento dei principali organi istituzionali consultivi e di controllo. Anche quando – come accade spesso – i quesiti incidono su aspetti molto tecnici, come quelli su cui gli elettori sono chiamati a esprimersi a giugno.

 

Tre quesiti su cinque intervengono sul mercato del lavoro, tentando di irrobustire le tutele per i dipendenti e rendere più complicata l’adozione di contratti a tempo determinato e licenziamenti per i datori di lavoro. Proprio nel momento in cui l’Italia ha raggiunto il record di occupati stabili e dopo anni di continuo calo dei posti di lavoro considerati precari. Concentriamoci sul primo quesito, il più discusso. Propone di cancellare l’indennizzo economico al lavoratore dipendente licenziato in modo illegittimo nelle imprese con più di 15 addetti, tornando alla possibilità di essere reintegrato sul posto di lavoro. Era stato il Jobs Act di Matteo Renzi a introdurre l’indennizzo commisurato agli anni lavorati in azienda, da un minimo di 6 mesi di stipendio a un massimo di 36. L’intento della riforma era ridurre il contenzioso in tribunale e l’incertezza per i datori di lavoro, così da incoraggiarli a programmare maggiori assunzioni. Un risultato raggiunto solo in parte: secondo i dati del ministero della Giustizia, con il Jobs Act i licenziamenti finiti in tribunale sono calati di circa il 20 per cento (circa 2.000 contenziosi in meno all’anno) studio.

 

Qual è l’eredità del Jobs Act, dopo dieci anni dalla sua entrata in vigore? Secondo gli studi scientifici pubblicati nell’ultimo decennio, l’effetto della riforma sui licenziamenti è stato piuttosto limitato. Gli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi hanno stimato un aumento ridotto e concentrato nelle grandi imprese. Così come è stata limitata la spinta che la maggiore flessibilità ha fornito alle assunzioni: secondo uno studio di due economisti della Banca d’Italia (Paolo Sestito ed Eliana Viviano) solo il 5 per cento dei nuovi contratti sono stati firmati grazie alla maggiore flessibilità dei contratti. Mentre è stato maggiore l’impulso della riforma alla conversione dei contratti da tempo determinato a indeterminato: i datori di lavoro sono stati meno riluttanti a offrire posizioni stabili anche a lavoratori che non conoscevano.

 

Quello che è certo è che il Jobs Act non ha provocato un’esplosione dei licenziamenti, come qualcuno temeva. I circa 3,5 milioni di lavoratori a cui – dal 7 marzo 2015 – è stata applicata la nuova normativa rischiano meno di essere licenziati rispetto ai propri colleghi che lavoravano prima dell’introduzione della riforma. Secondo i dati Inps, i licenziamenti economici e disciplinari di dipendenti a tempo indeterminato l’anno scorso sono stati 191 mila in meno rispetto al 2014: quasi il 30 per cento in meno. Nonostante la crescita dei contratti a tempo indeterminato intercorsa nel frattempo. In altre parole, nel 2014 vi era un licenziamento ogni 21 lavoratori stabili, mentre l’anno scorso se ne è verificato uno ogni 34. Nello stesso periodo invece i licenziamenti di dipendenti a tempo determinato, non coinvolti dal Jobs Act, sono cresciuti del 70 per cento.

 

Insomma, il Jobs Act ha modificato al margine la condizione dei lavoratori italiani: il rischio di essere licenziati è diminuito, e i dipendenti che hanno ricevuto l’indennizzo al posto del reintegro sono stati al più un paio di migliaia all’anno. Si tratta di lavoratori impiegati in imprese medio-grandi, solitamente più tutelati dalle organizzazioni sindacali rispetto agli addetti delle micro e piccole aziende. Nel periodo storico, lo ricordiamo, di massima occupazione, in particolare a tempo indeterminato. Ecco perché è possibile che il referendum non abbia successo e non raggiunga il quorum. Non per gli inviti all’astensione di La Russa e di qualche ministro, ma perché oggi la precarietà non sembra in cima alle preoccupazioni per la maggioranza degli italiani.

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