
Pechino, tariffe e ritirate
La moratoria sui dazi con la Cina è il termometro del fallimento di Trump
Né reshoring né decoupling, solo retreating. Gli Stati Uniti hanno chiuso un accordo con il loro grande nemico politico, facendo una sostanziale ritirata sulle tariffe introdotte dal Liberation day in poi
Come annunciato già da un giorno, dopo il negoziato di Ginevra, gli Stati Uniti hanno raggiunto un accordo di massima con la Cina sul commercio: entrambi i paesi ridurranno i dazi di 115 punti percentuali mantenendo un dazio aggiuntivo di 10 punti percentuali per 90 giorni, durante i quali continueranno a negoziare. In una escalation di dazi e controdazi, innescata dalle “reciprocal tariff” di Trump nel Liberation day, gli Stati Uniti avevano portato i dazi sulla Cina al 145% e la Cina sugli Stati Uniti al 125%. Ciò vuol dire che ora, e per i prossimi tre mesi, i dazi scendono rispettivamente al 30% e al 10%.
I mercati hanno reagito molto positivamente, con l’indice S&P che in apertura è balzato del 3% (così come è salito il dollaro), per un accordo che va oltre le più rosee aspettative. Sul fronte politico, la Casa Bianca ha celebrato l’accordo commerciale come una “storica vittoria per gli Stati Uniti, a dimostrazione dell’impareggiabile competenza del presidente Trump nel garantire accordi a vantaggio del popolo americano”. È la sbracata celebrazione, con toni quasi maoisti, di una ritirata. Perché non è vero che entrambi i paesi hanno fatto un passo indietro: la Cina aveva risposto ai dazi di Trump e ora li sospende nella misura in cui gli Stati Uniti li sospendono.
Molto più equilibrata la descrizione del segretario al Tesoro Usa, Scott Bessent, secondo cui “entrambi i paesi hanno rappresentato bene il proprio interesse nazionale”, ma soprattutto “il consenso di entrambe le delegazioni è che nessuna delle due parti vuole un disaccoppiamento – ha detto Bessent –. Quello che era accaduto con dazi così alti era l’equivalente di un embargo e nessuna delle due parti lo vuole. Vogliamo il commercio e vogliamo un commercio più equilibrato”.
Il tono conciliante di Bessent, consapevole che i veri negoziati cominciano ora, è molto diverso dal trionfalismo della Casa Bianca che punta a vendere agli elettori americani una clamorosa retromarcia come la proverbiale “Art of the Deal” del presidente Trump. Anche se finora i segnali da parte dei mercati, così come della fiducia delle imprese e dei consumatori, sono stati univoci: negativi a ogni annuncio di un nuovo dazio, positivi a ogni annuncio del ritiro o della sospensione dei dazi introdotti.
Questo modus operandi caotico e fonte di incertezza è stato applicato in maniera intensa con Pechino: dall’inizio del suo mandato, l’Amministrazione Trump è intervenuta sette volte per aumentare i dazi sulla Cina, fino a livelli astronomici, per poi l’ottava sospendere gli incrementi precedenti lasciando in vigore solo il primo. Un modo di procedere che non ha esattamente i contorni di una “storica vittoria”, così come la descrive la Casa Bianca, piuttosto rischia di rivelarsi, se non una storica sconfitta, una grande prova di debolezza.
Perché se si esclude quello con il Regno Unito dei giorni scorsi, piuttosto semplice da concludere sia perché si tratta di un paese alleato sia perché Washington è in surplus commerciale con Londra, questo con la Cina è il primo grande accordo sui dazi. Se l’obiettivo dell’Amministrazione Trump è la riduzione del deficit commerciale per diminuire la dipendenza dall’estero, in particolare su settori strategici, la Cina è la misura dell’efficacia di questa politica. Per tre ragioni: perché è il paese con cui gli Stati Uniti hanno il più ampio deficit commerciale (295,4 miliardi di dollari nel 2024); perché Pechino è il rivale strategico degli Usa sulla scena globale; perché Xi Jinping è stato l’unico leader mondiale che – invece di cercare una mediazione prima di rispondere con le ritorsioni – ha reagito a ogni dazio con un controdazio di pari misura, scommettendo che Washington avrebbe ceduto prima. Così è stato: l’Amministrazione Trump ha cercato e chiuso un accordo con il suo grande nemico politico, facendo una sostanziale marcia indietro sui dazi introdotti dal Liberation day in poi.
Più in generale, nonostante le autocelebrazioni, la strategia dei dazi di Trump non sta portando nessun risultato positivo per i tanti obiettivi dichiarati. Non c’è il ritorno in massa della manifattura in America né il “decoupling” dalla Cina (è lo stesso Bessent a dirlo). Né la famosa “leva negoziale” è servita a una reciproca riduzione delle barriere a livello globale. Sul piano fiscale, la tesi propagandata dal trumpiano Peter Navarro secondo cui i dazi produrranno il gettito necessario a tagliare le tasse mostra tutti i suoi limiti aritmetici: la riforma fiscale è ancora in alto mare, non ci sono le risorse per confermare i tagli fiscali del 2017 in scadenza e Trump ha appena aperto all’ipotesi di un aumento delle tasse sui più ricchi (che quindi non vengono sostituite dai dazi, ma si aggiungono a essi).
Questo però non significa che la guerra commerciale scatenata da Trump sia stata inutile. È stata comunque dannosa. Come dimostrano i primi accordi con Regno Unito e Cina, alla fine i dazi americani saranno almeno 10 punti più alti di prima, passando da circa il 2,5% al 12,5%. Un incremento molto più basso di ciò che si è temuto, ma molto più alto di ciò che c’era. Non è la fine della commercio internazionale annunciata dal movimento MAGA, semplicemente Trump ha gettato tanta sabbia nei suoi ingranaggi. La globalizzazione funzionerà come prima, solo un po’ peggio. E tutto sommato, visto quello che si prospettava, i mercati festeggiano.