il caso

I dazi di Trump sono un autogol, ma sul cinema l'Europa non può dare lezioni

Luciano Capone

Le tariffe del 100% sui film stranieri sono una mossa autolesionistica degli Usa, che hanno un surplus di 15 miliardi di dollari. Ma sull'audiovisivo l'Europa, e in particolare l'Italia, ha fatto politiche simili alzando barriere contro le produzioni americane

Secondo Donald Trump negli Stati Uniti c’è un’altra industria che “sta morendo” e che deve essere riportata in vita con i dazi: Hollywood. Il presidente degli Stati Uniti, con un post sul social network Truth, ha autorizzato dazi del 100% sui film prodotti all’estero. “L’industria cinematografica americana sta morendo molto velocemente – ha scritto –. Altri paesi stanno offrendo ogni sorta di incentivi per attirare i nostri registi e studi cinematografici lontano dagli Stati Uniti. Hollywood e molte altre aree degli Stati Uniti sono devastate. Questo è uno sforzo concertato da parte di altre nazioni e, quindi, una minaccia per la sicurezza nazionale”. Trump ha poi aggiunto di aver fatto “approfondite ricerche sul tema” ed è giunto alla conclusione che “le altre nazioni hanno rubato i film agli Stati Uniti”.

Il presidente degli Stati Uniti cerca di rispondere a un problema spesso sollevato dai sindacati di attori e maestranze. È vero che larghissima maggioranza dei film proiettati nei cinema americani sono prodotti negli Stati Uniti, ma sempre più spesso l’industria americana ha delocalizzato all’estero una buona parte della produzione (ad esempio, l’ultimo grande successo di Hollywood “Un film Minecraft” è stato girato in Nuova Zelanda, Canada e Regno Unito). Per due motivi. Da un lato le location estere offrono costi di manodopera inferiori, dall’altro i rispettivi paesi spesso offrono incentivi fiscali per attirare le produzioni. Questo fenomeno, secondo i sindacati, avrebbe fatto perdere 18 mila posti di lavoro negli ultimi tre anni.

La mossa del presidente americano è autolesionistica, come per tutti i dazi, ma in questo caso in maniera particolare. In primo luogo perché l’industria cinematografica americana è molto competitiva: nel 2023 ha macinato 22,6 miliardi di dollari di export e un surplus commerciale di 15,3 miliardi (il 6% di tutto il surplus nei servizi). In secondo luogo perché tradizionalmente i dazi non vengono applicati ai servizi e gli Stati Uniti sono un enorme esportatore di servizi, con un saldo positivo di 293 miliardi di dollari nel 2024: i dazi sul cinema giustificherebbero ritorsioni sui servizi su cui gli Usa sono particolarmente vulnerabili.

I dazi, ovviamente, chiuderebbero il grande mercato americano alle produzioni europee. Il protezionismo di Trump, quindi, anche in questo caso, oltre a essere autolesionistico danneggerebbe anche gli altri (seguendo pienamente la terza legge fondamentale sulla stupidità umana di Carlo M. Cipolla). Ma su questo tema, da quest’altra parte dell’oceano Atlantico, non possiamo dare tante lezioni. Perché il cinema è uno dei settori in cui l’Europa è molto protezionista, perseguendo gli stessi obiettivi e usando gli stessi argomenti di Trump seppure adoperando strumenti diversi. 

Non è un caso che il report Foreign trade barriers 2025, il libro nero delle barriere commerciali appena pubblicato dal Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti (Ustr), a cui Trump ha affidato il compito di imporre i dazi del 100% sui film, dedica ampio spazio alle barriere innalzate in Europa sui servizi audiovisivi. In Francia, ad esempio, tutte le emittenti sono obbligate a trasmettere il 50% di contenuti europei e dal 30% al 35% di contenuti in lingua francese; i servizi on demand televisivi e in streaming sono obbligati a investire dal 15% al 25% dei propri ricavi in produzioni europee e francesi; i cinema sono obbligati a  riservare cinque settimane ogni trimestre alla proiezione di film francesi.

L’Italia non è molto distante dal caso francese, anche perché da tempo ne ha adottato esplicitamente il modello protezionista di quote e sotto-quote (senza peraltro grandi risultati sul fronte dell’export). Il testo unico dei servizi media audiovisivi (Tusma), recentemente riformato dal governo Meloni, prevede una serie di obblighi di produzione e programmazione: la Rai ha l’obbligo di investire il 17% dei ricavi in opere europee, di cui il 50% è riservata a contenuti di “espressione originale italiana”; per gli altri operatori televisivi lo stesso obbligo è pari al 12,5% dei ricavi (di cui il 50% riservato a produzioni italiane); per le piattaforme di streaming la stessa quota obbligatoria d’investimento in opere europee è pari al 16% dei ricavi, di cui almeno il 70% in opere di espressione originale italiana. Questo porta a un paradosso: gli operatori on demand (cosiddetti “non lineari”), che sono prevalentemente americani, hanno un obbligo di investire in produzioni italiane pari all’11,2% (il 70% del 16%), che è ben superiore sia all’obbligo delle emittenti commerciali italiane pari al 6,25% (il 50% del 12,5%) sia addirittura all’obbligo previsto per la tv di stato, che è pari all’8,5% (la quota della Rai è il 50% del 17%).

Oltre agli obblighi di investimento ci sono anche gli obblighi di programmazione: le reti televisive devono trasmettere almeno il 50% di opere europee, di cui una sotto quota deve essere di opere italiane (un terzo per gli operatori privati mentre per la Rai la metà, di cui il 12% deve essere programmato in prime time e un quarto devono essere film sempre italiani); invece le piattaforme on demand – tipo Netflix, Disney+, Amazon Prime, Paramount, etc – hanno l’obbligo di avere nel catalogo almeno il 30% di opere europee, di cui almeno la metà deve essere riservata alle opere italiane. A queste misure strutturali se ne aggiungono altre più estemporanee, come il Bonus Cinema (pensato dall’ex ministro della Cultura di sinistra Dario Franceschini e realizzato dal suo successore di destra Gennaro Sangiuliano) che consente ai consumatori di andare al cinema a un prezzo scontato di 3,5 euro (il resto lo paga lo stato), ma solo per vedere film europei o italiani.

Sebbene diverse dai dazi espliciti di Trump, tutte queste barriere non tariffarie perseguono la stessa politica protezionistica attraverso la medesima logica: discriminare le produzioni estere rispetto a quelle locali, ovvero imporre obblighi o costi agli operatori esteri per poter entrare in un mercato. L’Ue e l’Italia impongono a Netflix di trasmettere opere domestiche o di investire in produzioni locali per poter accedere al mercato europeo e italiano, Trump imporrà agli europei e agli italiani un dazio per poter entrare nei cinema americani oppure di investire negli Usa per evitare il balzello. Trump lo fa in maniera spudorata, i governi europei in maniera più surrettizia. L’errore è lo stesso.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali