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Primo maggio sprecato: sul lavoro balle da destra e sinistra

Lorenzo Borga

La premier Meloni ha rivendicato il recupero del potere d’acquisto per le famiglie italiane. ma l'Ocse piazza l'Italia in fondo alla classifica. Per Landini “crescono i contratti a tempo, e i part time involontari”, ma i dati lo smentiscono

Il Primo maggio avrebbe potuto essere un’occasione per costruire un confronto costruttivo sulle soluzioni da trovare alla questione salariale italiana. Un momento per alimentare un dibattito delle idee fondato sui dati. Una scintilla per innescare una ripresa dei salari reali da troppo tempo fermi, o quasi. Avrebbe potuto, perché in realtà è stata un’occasione sprecata. Opposizione e governo si sono barricati dietro proclami e j’accuse.

 

La prima è stata Giorgia Meloni, che in un videomessaggio ha rivendicato il recupero del potere d’acquisto per le famiglie italiane. Anche più rapido – ha detto – di quanto avvenuto negli altri paesi europei. Non disponiamo del riferimento ai dati citati dalla premier: la presidenza del Consiglio non ha diffuso la fonte. Ma ci possiamo affidare all’Ocse, che da anni monitora il progressivo recupero dei salari dopo la crisi inflazionistica. Secondo l’elaborazione del Foglio di dati in via di pubblicazione da parte dell’istituto parigino, l’Italia in effetti ha registrato una crescita dei salari reali più elevata della media dell’Eurozona nel 2024: +3,1 per cento in Italia rispetto al +2,5 dell’area Euro. Anche più di Germania (+2), Spagna (+1,2) e Francia (+0,4).

 

Ma se allarghiamo lo sguardo e confrontiamo i dati dall’inizio della super inflazione che ha eroso il potere d’acquisto degli europei, la classifica ne esce rivoluzionata. Rispetto al 2021, a fine dell’anno scorso i salari degli italiani erano ancora del 7,2 per cento più bassi. In questo confronto siamo il terzultimo paese dell’area Ocse, prima solo di Svezia e Repubblica Ceca. Anche i greci hanno subito un calo del proprio potere d’acquisto pari quasi al nostro, ma lo hanno ormai quasi completamente recuperato. Per i portafogli dei lavoratori italiani quella dei primi anni Venti resterà probabilmente una ferita aperta ancora a lungo, come accaduto per la crisi del 2010.

 

Va detto che il governo Draghi prima e quello Meloni poi hanno stanziato nel complesso quasi 15 miliardi annui di taglio del cuneo fiscale. Questo ha favorito un ulteriore recupero del potere d’acquisto non visibile nei dati Ocse, basati sulle retribuzioni lorde: secondo i dati Inps si tratterebbe di almeno 2-3 punti percentuali. Comunque probabilmente non sufficienti a cambiare il quadro.
Si potrebbe tuttavia obiettare che in Italia da due anni si verifica una crescita record dell’occupazione. In molti bilanci familiari, per quanto azzoppati da salari mediamente più poveri, è in effetti entrato uno stipendio in più. Questo però non basta a invertire la tendenza. Tenendo conto di tutti i redditi delle famiglie calcolati da Eurostat, quelli italiani sono cresciuti dell’1,2 per cento rispetto alla metà del 2021. Tenendo quindi conto dell’aumento dell’occupazione, dunque il recupero dell’inflazione c’è stato. Ma c’è poco da rallegrarci. Negli altri grandi paesi europei si è andati ben oltre il dato italiano: +1,7 in Germania, +3,4 in Francia e un luminoso +7,3 in Spagna. Insomma, restiamo ancora in fondo alla classifica.

 

Se Meloni ha esagerato con l’ottimismo, anche sul versante opposto i dati non sono stati risparmiati dalle distorsioni della propaganda. Il segretario della Cgil Maurizio Landini è tornato a ribadire che a suo dire in Italia “crescono i contratti a tempo, e i part time involontari”. I dati lo smentiscono, come ribadito più volte dal Foglio. Secondo i numeri forniti da Istat, da quando Meloni è a Palazzo Chigi lavorano in Italia 715 mila lavoratori dipendenti in più. Nello stesso periodo i dipendenti a tempo determinato sono calati di oltre mezzo milione. L’intera crescita è dovuta quindi ai contratti stabili. Nel 2024 la quota di lavoratori a tempo determinato sul totale ha toccato il minimo dal 2016. Lo stesso si può dire a proposito del part-time involontario. Secondo gli ultimi dati, da quattro anni consecutivi cala la quota di occupati che non lavorano a tempo pieno e che desidererebbero fare di più.

 

Peccato per l’ennesima occasione mancata. Per un confronto serio e un dibattito su dati fondati, diamoci appuntamento al prossimo Primo maggio.

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