(foto EPA)

tra madrid e lisbona

Il blackout della politica energetica spagnola. Processo al primo blackout dell'èra green

Carlo Stagnaro

Le fonti rinnovabili non hanno “colpe”, ma in Spagna sono cresciute in modo scriteriato, grazie anche agli incentivi, senza essere chiamate  a contribuire alla sicurezza del sistema. Un fallimento della politica energetica di Madrid

Per comprendere le ragioni del più grave e diffuso blackout della storia europea – quello che ha lasciato oltre 50 milioni di persone al buio lunedì scorso – bisogna ricostruire tre verità: la verità tecnica, quella economica e quella politica. Al momento non è ancora possibile dire quali siano state le cause del collasso delle reti spagnola e portoghese, che avuto contraccolpi anche in Marocco e in Francia. Gli equivalenti iberici della nostra Terna, Red Eléctrica de España (Ree) e Redes Energéticas Nacionais (Ren), hanno rinviato qualunque considerazione ai rapporti che inevitabilmente dovranno essere prodotti. Alle indagini dei diretti interessati se ne aggiungerà una indipendente, richiesta dalla Commissione europea a uno stato membro non coinvolto dall’incidente. E probabilmente, questo sarà uno degli eventi più studiati di sempre. Il primo ministro spagnolo, Pedro Sánchez, ha detto: “Non escludiamo alcuna ipotesi”, ma intanto ha chiarito che la colpa non può essere addossata alle fonti rinnovabili e ha attaccato chi suggeriva che una maggiore quota di energia nucleare avrebbe potuto prevenire l’incidente. Inoltre, ha puntato il dito contro “los operadores privados” – i principali produttori di energia – immediatamente convocati alla Moncloa assieme a Ree per una riunione di emergenza. Questi hanno declinato ogni responsabilità, lamentando anzi di essere stati danneggiati dall’incidente e minacciando di portare in tribunale Ree e il governo.

 

I primi presunti colpevoli sono stati rapidamente scagionati. Inizialmente, si era pensato a un cyberattacco: questa possibilità è stata esclusa sia da Ree sia da Ren (e poi dai rispettivi governi). Poi, nella giornata di lunedì fonti riconducibili a Ren avevano parlato di un anomalo fenomeno di “vibrazione atmosferica indotta”, anch’esso rapidamente tolto dal tavolo. Quindi, né forze straniere ostili, né il cambiamento climatico o le sue conseguenze possono fungere da capro espiatorio.

Prima di procedere, bisogna riconoscere ciò che ha funzionato splendidamente: le operazioni per il riavvio della rete. Le dieci-dodici ore impiegate a ripristinare i sistemi possono apparire lunghe, ma riattivare un intero sistema elettrico, dopo che la produzione era letteralmente crollata a zero, è stata una prova di grande abilità tecnica. Quando la rete si spegne, lo stesso accade alla maggior parte degli impianti di generazione, i quali non possono essere riavviati senza una fonte di energia esterna. Può apparire controintuitivo, ma la rete per funzionare ha bisogno di energia: quindi non è in grado di riaccendersi da sola. Si è dovuto partire dalle fonti di energia più prontamente disponibili, cioè l’import dalla Francia e dal Marocco, per poi aggiungere gradualmente gli impianti idroelettrici e quelli a gas. Non solo: la rete è attraversata da corrente alternata, che cambia direzione 50 volte ogni secondo. Ciò significa che, prima di poter essere connessi, ciascun impianto di generazione deve raggiungere la medesima frequenza (appunto, 50 Hertz). Solo a quel punto possono tornare a dare il loro apporto le fonti fotovoltaica ed eolica e gli impianti nucleari, i quali hanno tempi di spegnimento e di riavvio più lunghi. Questi hanno funzionato perfettamente: si sono “spenti” in sicurezza e sono poi gradualmente tornati a erogare potenza. Chi dice che hanno contribuito al problema (Greenpeace) non ha capito nulla di ciò che è accaduto; e chi li accusa di non aver contribuito alla soluzione (Sánchez) non ha compreso a cosa servono le centrali atomiche, cioè a erogare potenza continuativa nel tempo, non a fare da “fisarmonica” per compensare le oscillazioni del sistema. Combinare tutti questi elementi partendo da zero, e riconnettendo gradualmente singoli impianti e poi intere porzioni di rete, è un esercizio delicato e complicatissimo.

 

Una simile procedura è un fatto del tutto inedito, non può essere testata: nessuno degli operatori coinvolti ne aveva alcuna esperienza. Questo suggerisce quindi che vi era un elevato grado di consapevolezza sul rischio e che sia l’operatore di rete, sia i produttori erano pronti ad affrontarlo. Ciò rende giustizia anche ai messaggi contraddittori che Red Eléctrica aveva inviato negli scorsi mesi: a febbraio, durante la presentazione del rapporto annuale, avvertiva del rischio di “disconnessioni della generazione” con possibili conseguenze “gravi” ma il 9 aprile, meno di tre settimane prima del disastro, twittava allegramente che “No existe riesgo de apagón”, non esiste alcun rischio di blackout. Evidentemente, i tecnici avevano maggiore consapevolezza rispetto ai responsabili della comunicazione.
Ma cosa ha realmente scatenato “el gran apagón”?

La verità tecnica

La causa scatenante è ancora sconosciuta. Sappiamo però alcune cose: i) la gestione dell’incidente è stata resa complessa dalla bassa inerzia del sistema, cioè della sua ridotta capacità di assorbire (mitigandole) repentine variazioni nella frequenza della rete; ii) l’isolamento elettrico della penisola iberica, che ha scarsi collegamenti con la vicina Francia, ha ulteriormente indebolito il sistema; iii) la responsabilità di mantenere il sistema in costante equilibrio tra domanda e offerta, evitando che la frequenza si discosti dal valore di 50 Hertz è del gestore della rete di trasmissione nazionale, cioè Red Eléctrica de España.
Sappiamo inoltre la sequenza dei fatti: alle 12.33 di lunedì un primo “evento” determina la perdita di una parte della generazione (“molto probabilmente” impianti fotovoltaici) nel sud-ovest della Spagna. Quando si verifica un fenomeno del genere, istantaneamente la frequenza della rete si abbassa. Spiega Nicolò Rossetto su Rivista Energia: “Se la deviazione dal valore di riferimento [della frequenza] diventa eccessiva, i sistemi di protezione distribuiti in tutto il sistema elettrico iniziano a intervenire e scollegano gli asset dalla rete per proteggerli da danni fisici. Le disconnessioni dovute ai sistemi di protezione si applicano sia agli asset di generazione che a quelli di consumo. Da ultimo, le disconnessioni portano all’interruzione del flusso di elettricità nel sistema”.

Ree reagisce correttamente a questo primo evento e stabilizza la rete nel giro di pochi millisecondi. Tuttavia, 1,5 secondi dopo si verifica un secondo “evento”, anch’esso assimilabile a una perdita di generazione, sul quale non si hanno informazioni precise. Non è noto neppure se vi sia un nesso tra i due “eventi”, sebbene molti lo ritengano probabile (cioè: è possibile che il primo evento abbia scatenato il secondo, o che entrambi abbiano una causa comune). I sistemi di Red Eléctrica non reagiscono in tempo, quindi la frequenza della rete comincia a “ballare”: la perturbazione si estende e, per ragioni di sicurezza, la Terna francese (Rte, Réseau de Transport d’Électricité) “chiude” il collegamento elettrico tra i due paesi. La rete si destabilizza ulteriormente e accade un ulteriore “evento”, cioè il “massiccio” distacco di generazione rinnovabile. A quel punto la frequenza è fuori controllo e i sistemi di sicurezza scollegano progressivamente impianti e porzioni di rete. La corrente smette di fluire nel sistema e le luci non si accendono più.  Cosa abbia determinato gli “eventi” non lo sappiamo; non sappiamo neppure in cosa precisamente essi consistano. Sappiamo però che, al di là delle cause scatenanti il blackout, vi erano alcune cause predisponenti che hanno reso assai più complessa la gestione dell’emergenza. Fin da subito, molti hanno osservato che il sistema era caratterizzato da bassa inerzia. Questo è il modo in cui ChatGPT spiega il concetto di inerzia: “L’inerzia di un sistema elettrico è l’energia cinetica immagazzinata nelle masse rotanti di generatori sincroni e motori. Essa resiste ai cambiamenti rapidi della frequenza di rete, per esempio in caso di guasto o perdita improvvisa di generazione. Più elevata è l’inerzia, più lentamente varia la frequenza, dando tempo ai sistemi di controllo per intervenire”. E’ lo stesso fenomeno fisico per cui, quando smettiamo di pedalare, la nostra bicicletta continua ad andare avanti, rallentando lentamente fino a fermarsi. Prosegue ChatGPT: “Con l’aumento delle fonti rinnovabili non sincrone (come solare ed eolico), l’inerzia diminuisce, rendendo il sistema più vulnerabile a instabilità e blackout. Mantenere un’adeguata inerzia è quindi cruciale per la stabilità e l’affidabilità della rete elettrica”. Nell’episodio di lunedì, la bassa inerzia del sistema ha amplificato le conseguenze degli “eventi” anomali. 
A un livello molto generale, il blackout spagnolo ha alcune somiglianze con quello che colpì l’Italia alle 3.27 del mattino del 28 settembre 2003. Anche in quel caso, tutto cominciò con l’improvviso venire meno di una parte delle forniture, a causa di un guasto alla linea dalla Svizzera. Il nostro paese seppe fare tesoro dell’esperienza. Come ha spiegato alla Staffetta Quotidiana Maurizio Delfanti, professore di sistemi elettrici al Politecnico di Milano, questo suscitò polemiche a causa del costo delle contromisure: “Un intervento che si è rivelato giusto, anche se non c’è la garanzia assoluta che ci protegga da eventi di questo tipo”. Oltre a stabilire per Terna standard di sicurezza più elevati, si fissò l’obbligo di dotare gli impianti fotovoltaici sopra i 6 kW di potenza di dispositivi anti-blackout, che – in caso di emergenza – mimano l’inerzia, contrastando le cadute (o i picchi) di produzione. Questi dispositivi non sono però normalmente previsti nei piccoli impianti domestici, che pure in Spagna rappresentano una quota molto rilevante della produzione nelle ore centrali del giorno, senza che l’operatore di rete li possa “vedere” e senza quindi che possa prevenire eventuali prelievi o immissioni di energia. “L’aumento della generazione da rinnovabili non programmabili – ha detto l’economista Susanna Dorigoni al Corriere della Sera – rende i sistemi più complessi e più vulnerabili sia a eventi endogeni sia esogeni. La loro integrazione nel sistema elettrico richiede investimenti per consentire alla rete di mantenere la stabilità”. 
Tutta colpa delle rinnovabili dunque? Prendersela solo col fotovoltaico e l’eolico sarebbe facile ma sbagliato. 

La verità economica

Gli impianti eolici e fotovoltaici che alle 12.33 del 28 aprile immettevano una enorme quantità di energia in rete (e quelli che soddisfacevano un altrettanto importante fabbisogno di autoconsumo) non hanno “colpe”. Facevano l’unica cosa che possono e devono fare, cioè produrre energia decarbonizzata quando il sole splende e il vento soffia. 

Le responsabilità però ci sono e, almeno in parte, possono essere tracciate. Riguardano, da un lato, la gestione del sistema e, dall’altro, il suo sviluppo nel lungo termine. Mantenere la rete in sicurezza è compito del gestore dell’infrastruttura, cioè Red Eléctrica de España, che opera in regime di monopolio (naturale) su concessione dello stato ed è generosamente remunerata per farlo. Non è quindi sbagliato parlare di un fallimento di Ree. “Fallimento” non significa necessariamente errore, nel senso che è possibile che – data la situazione – non ci fossero alternative né vie d’uscita. Forse Ree non poteva evitare la successione di eventi che ha portato al blackout: ma, probabilmente, avrebbe potuto mettere in atto azioni finalizzate a prevenirli. Per esempio, rientra nella discrezionalità del gestore della rete stabilire – entro certi limiti – se e quanta produzione rinnovabile “tagliare” (cioè non accettare in rete). Spesso lo si fa per mantenere in esercizio un sufficiente numero di impianti a gas da garantire capacità di reazione e sufficiente inerzia al sistema. 
La questione, ovviamente, non riguarda la sola penisola iberica. In un paper del 2023 per l’Oxford Institute for Energy Studies, Staffan Qvist, Mohamed Al Hammadi e David Victor mettevano in evidenza proprio questo aspetto: “La perdita di inerzia è una conseguenza inattesa e del tutto inintenzionale di queste politiche e scelte nel disegno di mercato… l’esperienza nordica in particolare suggerisce l’esigenza di una comprensione a livello sistemico di come le parti digitalizzate della rete possano fallire o influenzare l’adeguatezza in modi precedentemente insospettati”. Tali temi non erano sconosciuti a Ree. A febbraio la società avvertiva che “l’elevata penetrazione delle fonti rinnovabili senza le necessarie capacità tecniche per mantenerle in esercizio anche in presenza di disturbi… può causare disservizi anche severi”. 

 

Perché lo ha sottovalutato? Il premier Sánchez ha sparato a palle incatenate su “los operadores privados”, lasciando intendere che – anche questa volta – “è colpa del neoliberismo”. Ma Ree è strettamente controllata dallo stato. Le sue attività sono regolate dall’Autorità per l’energia spagnola (la Comisión Nacional de la Energía). Inoltre, il principale azionista è proprio lo stato, attraverso la Sociedad Estatal de Participaciones Industriales (equivalente alla nostra Cdp) che ne possiede il 20 per cento. La presidente di Ree, che in questi giorni ha difeso l’operato della società, è Beatriz Corredor, una nota esponente del Partito socialista spagnolo (lo stesso di Sánchez) che è stata ministra dell’edilizia abitativa nel governo di José Zapatero tra il 2008 e il 2010. Altro che spiriti animali del capitalismo. E’ probabile che le politiche di Ree siano determinate tanto dagli input politici, quanto dalla volontà di contenere i costi dell’energia: infatti, incrementare la sicurezza del sistema comporta inevitabilmente dei costi. 

Ree avrebbe potuto gestire meglio la situazione se avesse avuto a disposizione una ben maggiore capacità di accumulo. Ha scritto G.B. Zorzoli: “In Spagna i sistemi Bess (Battery Energy Storage System) connessi alla rete hanno una capacità complessiva di 60 Megawatt, cui vanno aggiunti  6,3 Gigawatt di impianti di pompaggio e 1 Gigawatt di accumuli termici, da confrontare con una capacità eolica e fotovoltaica pari a 64,5 Gigawatt, contro circa 1 Gigawatt di Bess a scala di rete e circa 19,72 Gigawatt di impianti di pompaggio in Italia, dove la capacità eolica e fotovoltaica è inferiore (50,9 Gigawatt)”. Analogamente, è possibile equipaggiare gli impianti rinnovabili con apparecchi capaci di fornire “inerzia sintetica”, cioè di mimare il comportamento dei generatori tradizionali. 

Nel citato studio di Qvist, Al Hammadi e Victor si riflette in particolare sull’esperienza nordica: “Il ritiro prematuro di alcune unità nucleari assieme all’espansione dell’energia eolica ha ridotto l’inerzia dei sistemi e, conseguentemente, costretto gli operatori di rete a sviluppare e finanziare un tipo completamente nuovo di mercato a supporto della sicurezza del sistema, offrendo quanto meno una provvisoria azione mitigatrice”. Il riferimento è all’approvvigionamento competitivo di servizi sia dal lato dell’offerta (impianti che possono rapidamente aumentare o ridurre l’immissione di energia in rete) sia dal lato della domanda (carichi che possono rapidamente aumentare o ridurre il prelievo di energia). Ciò presuppone la diffusione di sistemi intelligenti e di meccanismi di accumulo, sia di larga scala, sia più piccoli e diffusi sul territorio, sia infine di una più attiva gestione della domanda: più la rete è in grado di attivare risorse, più essa si trova nella condizione di gestire istantaneamente eventi come quelli che hanno scatenato il collasso del 28 aprile. La sensazione è che Ree abbia sottovalutato il rischio, di cui pure era a conoscenza, forse anche per conseguire l’input politico di massimizzare la produzione rinnovabile e minimizzare i costi, anche a scapito della sicurezza.  
Perché la Spagna non ha fatto abbastanza per proteggere la rete? E perché le fonti rinnovabili sono cresciute in modo scriteriato e disordinato, concentrandosi in alcune aree del paese, senza essere chiamate a contribuire alla sicurezza del sistema? Per rispondere, bisogna andare al cuore di quello che – fino a pochi giorni fa – era il celebrato “modello spagnolo”. Bisogna cioè affrontare la verità politica del blackout.

La verità politica

La caotica proliferazione delle rinnovabili spagnole – e l’impossibilità della rete di seguirne lo sviluppo garantendo la sicurezza del sistema – dipende da incentivi economici stabiliti dalle norme. Diversamente dagli impianti tradizionali, che devono rispettare puntualmente i programmi di immissione di energia in rete, gli impianti rinnovabili non subiscono penalizzazioni (o ne subiscono di meno). Non solo: sono le politiche di incentivazione che ne hanno favorito la crescita incontrollata. Il principale strumento sono i cosiddetti “contratti alle differenze”, o Cfd, spesso presentati come un mezzo virtuoso per perseguire il cosiddetto disaccoppiamento tra i prezzi dell’energia elettrica e quelli del gas. Attraverso i Cfd, un produttore rinnovabile ha diritto a ricevere un certo prezzo per l’energia prodotta, a prescindere dai valori di mercato. Ciò determina un incentivo implicito a localizzare le opere non dove serve l’energia, ma dove la produzione è massima. Esso è reso ancora più forte dalla previsione per cui anche l’energia tagliata viene remunerata: cioè la collettività paga per energia che non solo non serve (nel senso che non è domandata) ma che è dannosa per il sistema (e quindi viene rifiutata dalla rete). La crescita irrazionale del fotovoltaico spagnolo è legata anche ad altri aspetti, tutti connessi a forme di supporto diretto o indiretto alla produzione rinnovabile. 

 

Sotto questo profilo, gli investitori non hanno “colpe”: hanno visto un’opportunità di profitto e l’hanno sfruttata. Il problema è che tale opportunità di profitto non nasce dal mercato, ma dalla politica, che ha contemporaneamente sgravato gli operatori da ogni obbligo di sicurezza. Se i produttori rinnovabili fossero obbligati a garantire la programmabilità delle loro produzioni, facendosi carico dell’accumulo dell’energia in eccesso, e di fornire al sistema l’inerzia necessaria, essi investirebbero solo nelle tipologie di impianti e nelle localizzazioni in grado di coprire l’investimento. Il vituperato mercato questo messaggio lo lancia da tempo: nel 2024, il mercato elettrico spagnolo ha espresso prezzi nulli o negativi per 774 ore, pari al 9 per cento delle ore dell’anno. E nel resto del tempo i prezzi sono comunque molto bassi: segno che viene prodotta troppa energia rispetto a quanta ne viene richiesta. Sabato 19 aprile, due giorni prima del blackout, i prezzi sono stati nulli per undici ore su ventiquattro. 
Se si tenesse conto di questi costi nascosti o ignorati – incluso il rischio sicurezza – allora sarebbe evidente che non è vero che la transizione è un processo privo di impatto economico. La decarbonizzazione può essere necessaria, ma non è gratis. D’altronde, quando si dice che le reti europee dovranno sostenere nei prossimi anni 100 miliardi di euro di investimenti, si intende che i consumatori europei dovranno farsi carico di 100 miliardi di euro di costi in bolletta (per la gioia degli azionisti, prevalentemente pubblici). Quanto più uno ritiene che tali costi siano necessari, tanto più è doveroso riconoscerne l’esistenza. Per esempio, si potrebbero disegnare i meccanismi di supporto alle fonti rinnovabili in modo tale da favorire (o imporre) l’equipaggiamento degli impianti con sistemi per fornire inerzia, come già accade in Italia. Altrettanto importante, il supporto a eolico e fotovoltaico non dovrebbe essere disgiunto dalla realizzazione di adeguata capacità di accumulo e gli impianti andrebbero realizzati dove servono (e non dove producono energia inutile). Il ministero dell’Ambiente aveva provato a prevedere clausole ad hoc ma è stato costretto a una rapida retromarcia: anzi, adesso gli impianti fotovoltaici vengono remunerati anche quando la loro produzione viene tagliata, come già accadeva per quelli eolici. Il 1° maggio, in Italia abbiamo avuto sette ore in cui il prezzo dell’energia elettrica all’ingrosso è stato nullo: sono le prime avvisaglie. 

 

Infine, la decarbonizzazione dovrebbe essere vista come una politica più ampia, di cui le rinnovabili sono una componente importante ma non l’unica. Il presupposto della transizione, specie se basata sulle rinnovabili, è l’aumento della domanda. Solo questa può trainare l’installazione di nuovi impianti con queste caratteristiche. In Spagna, la richiesta di elettricità è scesa dal picco di 295 Terawattora nel 2008 a 262 Terawattora nel 2024: nello stesso periodo, la quota delle rinnovabili è esplosa dal 21,7 per cento al 57,9 per cento. Tale trasformazione non è stata accompagnata da alcun tentativo di mitigarne gli effetti negativi, ma è stata orientata unicamente a coglierne i benefici di breve termine (minori emissioni e riduzione dei prezzi all’ingrosso), trascurando, in particolare, la sicurezza della rete. Quando il governo spagnolo dice che le rinnovabili non c’entrano col blackout, sta in realtà deflettendo la responsabilità dalle proprie stesse scelte, che non riguardano di per sé le rinnovabili ma il modo in cui sono state indotte a svilupparsi. 

 

Il che conduce a un ultimo punto. I costi della transizione possono essere ridotti, e la sicurezza delle reti incrementata, se aumenta la dimensione fisica dei mercati. Cioè: se crescono le interconnessioni, consentendo alle reti di aiutarsi reciprocamente (e per converso ai prezzi di convergere). Questo elemento è completamente mancato in Spagna, a causa soprattutto dell’esiguità dei collegamenti con la Francia (da sempre avversati da Parigi). Ma tale isolamento elettrico, i cui problemi sono oggi evidenti, è stata la condizione di base del famigerato “tope al precio del gas”, cioè del meccanismo introdotto da Madrid per abbassare i prezzi dell’energia e più volte evocato dai nostri politici. Sarebbe interessante rileggere oggi le copiose interviste rilasciate su questi temi da politici di primo piano in lode del modello spagnolo. Ebbene: adesso sappiamo che l’isolamento è un problema e che, se consente più autonomia politica, determina anche maggiori rischi. Del resto, avremmo potuto capirlo ben prima, osservando per esempio il blackout texano del 2021 (dovuto al gelo che bloccò le turbine eoliche e a gas), che sarebbe stato possibile evitare grazie a maggiori interconnessioni. 

 

In sostanza, nell’attesa di conoscere gli esiti delle indagini approfondite – in Italia nel 2003 ci vollero sette mesi – si possono formulare alcune considerazioni: 1) la fragilità del sistema ha reso impossibile gestire la rapida successione di “eventi” che hanno destabilizzato la rete; 2) non è chiaro in cosa gli operatori privati, accusati da Sánchez, abbiano sbagliato; irrazionali sono stati invece lo sviluppo del sistema e forse la sottovalutazione dei rischi da parte di Ree; 3) insufficienti investimenti nella capacità di accumulo, nel mantenimento di un adeguato livello di inerzia e nelle interconnessioni estere hanno acuito le debolezze della rete iberica; 4) in ultima analisi, il blackout del 28 aprile deriva da un fallimento della politica energetica spagnola. 
Beninteso, non è il primo blackout della storia né sarà l’ultimo. L’analista di Bloomberg Javier Blas lo ha chiamato “il primo blackout dell’era green”: è più un fatto che un giudizio. Nel passato, ogni blackout ci ha fornito preziosi insegnamenti su come accrescere la robustezza delle reti e mitigare i rischi. Oggi stiamo entrando in un territorio nuovo: gestire reti con tante rinnovabili non è impossibile ma è difficile; lo sviluppo dell’eolico e del fotovoltaico non può essere trattato come una variabile indipendente. E’ importante che la lezione del “gran apagòn” non venga sprecata. 

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