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il caso

Da Cuccia a Nagel, da Mussolini a Meloni: Generali contese da banche, governi e famiglie. Scalate e segreti

Stefano Cingolani

Le incrollabili generalissime. Il Leone di Trieste non è mai stata fuori dalla politica nonostante gli sforzi e le dichiarazioni in tal senso. È rimasta sempre in una sorta di incrocio

Perché tutti vogliono le Assicurazioni Generali? Che cos’è questo ansiogeno agitarsi attorno al mitologico Leone di Trieste? Perché sono il salvadanaio degli italiani, si dice. Una volta: oggi i risparmiatori hanno molte più scelte, almeno finché qualche sovranista non chiude le frontiere. Nel sulfureo mondo delle assicurazioni italiane Generali resta in testa, con una quota di mercato del 20 per cento, poi ci sono UnipolSai, Poste, Intesa, Allianz, Axa, Zurich, Mediolanum e così via. In Europa primeggia la tedesca Allianz, seguita dalla francese Axa, la svizzera Zurich, poi Generali incalzata da Talanx, anch’essa tedesca. In borsa la compagnia triestina vale 51 miliardi di euro, Allianz 140; la strada alla vetta è lunga e accidentata e chiunque voglia partecipare alla scalata deve investire un bel po’ di quattrini e di idee. Alcuni sostengono che molto si può ricavare dall’immenso patrimonio immobiliare di Generali se messo a frutto con maggior coraggio. Forse, ma attenzione, il mattone sta a garanzia delle polizze. Allora perché Enrico Cuccia era arrivato al punto di nascondere il pacchetto di controllo in una “stanza segreta” della quale solo lui, il suo socio André Meyer e Gianni Agnelli avevano la chiave? Perché persino Benito Mussolini temeva di mettere le mani nella gabbia del Leone? Aveva sempre difeso il presidente Edgardo Morpurgo, “una delle più alte personalità del mondo finanziario nazionale, un ambasciatore dell’economia italiana nei paesi, dove il nome di Generali godeva di una reputazione come pochissime altre società internazionali del genere”, così disse a Margherita Sarfatti. Poi nel 1938 arrivarono le leggi razziali e l’israelita Morpurgo cedette a Giuseppe Volpi la poltrona dove era rimasto per un ventennio, al culmine di un’arrampicata scalino dopo scalino cominciata nel 1883 quando aveva solo 17 anni. Passa il tempo, ma tutte quelle domande cercano ancora una risposta chiara e Generali resta il pozzo dei desideri, oggi più che mai, fino al gambetto di Alberto Nagel. 


Si chiamava anche lui Morpurgo, anzi Giuseppe Lazzaro Morpurgo, l’uomo d’affari ebreo ashkenazita che nel 1831, il 26 dicembre, Santo Stefano, fondò a Trieste la Imperial Regia Compagnia di Assicurazioni Generali Austro-Italiche. L’emblema non era il Leone di San Marco, ma l’aquila asburgica (fino al 1860), il capitale già allora era diffuso in una platea molto ampia di soci (anche se non si parlava ancora di public company) tra i quali spiccavano imprenditori triestini e del Lombardo-Veneto senza che nessuno di loro avesse una posizione dominante. Dalla nascita fino al 1938, quindi per un secolo, Generali è stata guidata da esponenti della borghesia ebraica di mercanti, banchieri, uomini d’affari che a Trieste e in parte nella stessa Venezia hanno avuto un ruolo fondamentale nello svecchiare il sonnolento impero asburgico giunto ormai al suo declino. Anche se va ricordato il ruolo svolto negli esordi da Giambattista Rosmini, parente del teologo e patriota risorgimentale Antonio. Generali ha rappresentato un salto nella modernità in quel singolare universo che garantisce un approdo certo a chi mette i propri quattrini nella grande scommessa contro l’incertezza. Quella stessa borghesia aveva dato vita, sempre a Trieste, alla Ras (Riunione adriatica di sicurtà), la principale concorrente finita a Pesenti negli anni 60 del secolo scorso e poi nel 1984 alla tedesca Allianz. 


Numero uno nella Mitteleuropa, il Leone di San Marco era una presenza importante dal canale di Suez a San Pietroburgo, in Estremo Oriente come nelle Americhe, prima e dopo la Grande Guerra sotto la guida di Edgardo Morpurgo, un innovatore che affida la cura dell’immagine al pittore e illustratore Marcello Dudovich uno dei padri del cartellone pubblicitario. Quando diventa presidente Volpi, uomo d’affari veneziano, fascista tecnocrate, ex ministro delle finanze nominato da Mussolini conte di Misurata, la vera gestione passa nelle mani di una figura singolare come Gino Baroncini, romagnolo di Imola, sindacalista e fascista “un carattere violento con un particolare coraggio. Era incolto ma intelligente ed organizzatore abile ed astuto”, scrisse di lui Dino Grandi. Caduto in disgrazia nel 1923, sconfitto nella lotta interna al partito, si ritira a vita privata, a Milano si butta con successo negli affari e Morpurgo gli affida nel 1937 la direzione generale delle assicurazioni. Sotto la guida di Baroncini la compagnia attraversa la guerra, il crollo del fascismo, la ricostruzione e il miracolo economico. Nel 1960 viene nominato presidente fino al 1968 quando arriva Cesare Merzagora che resterà in carica per un decennio incrociando i ferri con Enrico Cuccia. Milanese, uomo di finanza e banca (anche lui alla Commerciale guidata da Raffaele Mattioli), violoncellista dilettante, ma di talento, antifascista, era stato presidente del Senato dal 1953 al 1967, pur non essendo iscritto al partito venne candidato da Amintore Fanfani alla presidenza della Repubblica. Tornato agli affari si mette in testa di dare una svolta alle Generali dove era cresciuta l’influenza di Mediobanca, trasformata da Cuccia in cassaforte e plancia di comando delle grandi famiglie del capitalismo italiano avviate sul viale del tramonto.


La banca nata per dare credito a medio termine alle imprese, mestiere che per la legge del 1936 le banche commerciali non potevano più esercitare, era entrata via via (con una accelerazione impressa dalla nazionalizzazione delle imprese elettriche nel 1962) nell’azionariato di Olivetti, Pirelli, Montecatini, Pesenti, aveva stretto un legame con la Fiat degli Agnelli soprattutto dopo l’uscita di Vittorio Valletta che diffidava di Cuccia. Insomma era il pantheon del primo capitalismo. Dopo il fallito tentativo di agganciare la Chase National Bank di David Rockefeller, Cuccia viene messo in contatto con il finanziere franco-americano André Meyer e la sua banca Lazard che entra nel capitale di Mediobanca insieme alla Lehman brothers. Tre anni dopo nasce il patto di sindacato che guiderà a lungo la banca d’affari fino alla “privatizzazione di cartapesta” come la chiamò Merzagora, della quale Generali è l’ambita preda. Meyer serviva a Cuccia non solo per aprire Mediobanca alla grande finanza internazionale, ma anche per proteggere una partecipazione considerata strategica nella compagnia triestina. Al volgere degli anni ‘80 la Mediobanca era l’azionista numero uno con 5,4 per cento seguita da Euralux con il 4,8 per cento, poi la Banca d’Italia, l’Imi, la Comit e un insieme di istituti bancari. Ma che cos’era Euralux? Sotto quella sigla si nascondeva una fiduciaria lussemburghese che Cuccia e Meyer usano per operazioni all’estero al riparo da occhi indiscreti. E non solo. Nel 1984 in piena estate (Cuccia amava lavorare in agosto quando tutti erano in ferie) spunta la proposta di aumentare il capitale di Mediobanca con un’offerta riservata ai soci storici. Solo che la Lazard non avrebbe portato capitale fresco, ma la sua quota in Generali che sarebbe tornata in Italia, trasformando Cuccia nel dominus incontrastato della compagnia. Unico e solo? Un momento. Qui salta fuori l’inghippo. 


Gianni Agnelli attraverso la finanziaria Ifint deteneva una partecipazione in Eurofrance che a sua volta era azionista di Euralux. Con un articolo sulla Repubblica, Merzagora rivelò che il vero piano era mettere Generali nelle mani dell’Avvocato sotto la regia e il patrocinio di Cuccia. Anche perché esisteva un patto rimasto a lungo segreto secondo il quale anche Agnelli non era che l’uomo di paglia. Molto tempo dopo sarà Gianluigi Gabetti a raccontare come l’Ifint venne trascinata in questo intrico perverso senza sapere né capire di essere “strumento cieco d’occhiuta rapina”. Un intreccio tanto tortuoso che le stesse Generali erano azioniste della sua propria azionista Euralux attraverso un veicolo finanziario chiamato Concorde. A contrastare queste trame si mette di mezzo la Democrazia cristiana, con Romano Prodi presidente dell’Iri che controllava le tre banche (Credit, Comit, Banco di Roma) azioniste originarie della Mediobanca, con Beniamino Andreatta la più lucida mente economica (e non solo) della Dc e con Giulio Andreotti patron della finanza vaticana e nemico giurato della “finanza massonica” di Milano e dintorni. Finisce con un compromesso e cambia tutto senza cambiare il ruolo chiave di Cuccia il quale ridacchia dicendo: mettetemi pure in uno scantinato, ma sarò sempre io a comandare.


In questo intruglio politico-finanziario, romano e milanese, italiano e francese,  ha svolto un ruolo attivo Antoine Bernheim socio importante della Lazard che era entrato in Generali come garante della Lazard. Con i genitori trucidati ad Auschwitz, Tonio chiamato così per la sua faiblesse per l’Italia, campione di bridge e protagonista della haute finance (Vincent Bolloré deve a lui il suo successo così come in gran parte Bernard Arnault) diventa presidente nel 1995. Tenta subito di comprare la Compagnie du Midi che gli viene soffiata dal suo vecchio amico Claude Bébéar, grand patron di Axa della quale Generali possiede il 40 per cento. Nel 1999 Bernheim prova a scalare un’altra società francese, l’Assurance Générale, ma fallisce e a quel punto Cuccia lo sfiducia. Intanto la compagnia triestina aveva venduto la sua partecipazione in Axa per salvare l’Ina. Un’operazione “nazionale” che accontenta il mondo politico e accolla a Generali un pesante fardello finanziario (debiti per oltre un miliardo di euro) e organizzativo. 
Ci vorranno dieci anni per digerire la scelta tutta italiana. Anni travagliati ancor più dopo la morte di Cuccia nel 2000. Mediobanca guidata dal vecchio pupillo Vincenzo Maranghi si riappropria di Euralux e aumenta la sua partecipazione in Generali fino al 13 per cento attuale o meglio prima del gambetto di Nagel disposto, come negli scacchi, a cedere un pezzo pregiato, cioè l’intera partecipazione, in cambio di Banca Generali, per bloccare l’offensiva dei suoi stessi azionisti Caltagirone e Milleri. Carta contro carta, sia chiaro, nessuno tira fuori un euro. Come del resto per l’offerta di scambio del Montepaschi per la stessa Mediobanca. Insomma se il vero obiettivo sono le Generali, ebbene chi conquista piazzetta Cuccia ha in mano una banca più forte, ma senza il Leone di Trieste. Nagel ha lanciato un’Opas su Banca Generali (controllata dal gruppo assicurativo triestino con una quota del 50 per cento) proponendo come corrispettivo il 6,5 per cento delle azioni del Leone, parte del pacchetto (il 13,1 per cento) che consente a Piazzetta Cuccia di nominare il consiglio di amministrazione. Il resto delle azioni verrà monetizzato, sostituendo pertanto il legame finanziario con una “forte partnership industriale”, come recita il comunicato. L’operazione fa l’interesse di Generali? Molti ne dubitano: perché mai dovrebbe scambiare una banca che fa profitti con azioni proprie di una compagnia che non ne ha bisogno? Si chiede Riccardo Sabatini attento conoscitore delle assicurazioni. Verrebbe sfilato alla compagnia triestina un’attività a che vale oltre sei miliardi a conferma che avevano avuto ragione Perissinotto e Sergio Balbinot che l’avevano creata nel 1998 vincendo le resistenze interne ed esterne. Altri come gli analisti della Morgan Stanley che prima erano critici hanno cambiato idea. Confusion de confusiones come scriveva nel 1688 Josef de la Vega nel suo libro sulla borsa di Amsterdam.


Gli ultimi vent’anni hanno visto un susseguirsi frenetico di gruppi dirigenti. Lo ha ricordato Cesare Geronzi che aveva sostituito Bernheim, pugnalato alle spalle dal suo protetto Bolloré: “Siamo di fronte a una grande impresa che cambia ogni anno a seconda dei giochi che si consumano in quella piccola impresa che si chiama Mediobanca”. Le cose non sembra siano cambiate moltissimo. Geronzi chiamerà la compagnia “una mucca dalle cento mammelle” e nel libro intervista con Massimo Mucchetti racconta di “una congiura che mi ha indotto a lasciare la presidenza”, un complotto politico-finanziario alle sue spalle, tale da spezzare persino le zanne del Leone. Il regicidio diventa la norma, così si cambiano i manager lungo la direttrice Milano-Trieste. Nel 2012 arriva come amministratore delegato un assicuratore energico, Mario Greco, che durerà solo quattro anni (oggi guida Zurich che stava per finire sotto il controllo della concorrente triestina e oggi invece l’ha sorpassata). Prende il posto di Giovanni Perissinotto, caduto nel 2012 sotto la mannaia di Leonardo Del Vecchio il quale si è trasformato da azionista passivo in socio iperattivo dentro Unicredit, Mediobanca e soprattutto Generali. Proprio il fondatore di Luxottica che l’ha fusa con Essilor e spostata in Francia, si butta nei giochi finanziari dai quali si era a lungo tenuto fuori e comincia a rimettere in discussione gli equilibri della “galassia del nord” che ruota attorno alla coppia Mediobanca-Generali. Con lui si schierano Francesco Gaetano Caltagirone e, sia pure con maggior cautela, Benetton. Si crea così quella filiera che oggi riempie le prime pagine. Nel frattempo in groppa al Leone finisce Philippe Donnet, francese (e ormai anche italiano) con alle spalle una lunga carriera in Axa. Mediobanca di Nagel lo mette al posto di Greco con l’intento di riportare concordia e ordine all’interno. Ma si troverà a combattere ormai da dieci anni con l’asse Del Vecchio-Caltagirone. Per due volte vince in assemblea, grazie al sostegno di Piazzetta Cuccia e dei fondi d’investimento internazionali nei cui portafogli è la maggior parte delle azioni. La partita si fa sempre più aspra anche perché scende in campo non più come arbitro, ma come giocatore, il governo Meloni. La nostra ricostruzione si ferma qui, sulla soglia del futuro. Il Leone di Trieste non è mai stato, come si è visto, fuori dalla politica nonostante gli sforzi e le dichiarazioni in tal senso. E’ rimasto sempre in una sorta di incrocio, con la criniera da una parte e le zampe dall’altra, invertendo spesso posizione. Stato e mercato, politica e affari, risparmio e profitto, quante coppie si sono formate e continueranno a formarsi in questo valzer senza fine.

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