Risiko e competitività
Perché sulle banche una politica che ostacola l'azione del mercato è pericolosa
Non solo il caso Unicredit. Come si costruisce, quando si parla di banche, un compromesso ambizioso che consenta di aumentare la capacità competitiva dell’Europa. Mantenendo la consapevolezza che le retoriche sono sempre foriere di disastri
La vicenda Unicredit-Commerzbank è morta? Ovviamente no. Lo ha negato innanzitutto l’amministratore delegato di Unicredit, Andrea Orcel, secondo cui l’offerta per Banco Bpm si muove su un diverso binario e non interferisce con la volontà di crescere in Commerzbank. Lo hanno negato tutti gli osservatori, gli analisti di mercato in particolare, sostenendo che la vicenda è sospesa per le convulsioni politiche in Germania, ma che una volta tenutesi le elezioni generali in quel paese potrebbe tornare d’attualità. Lo nega anche la logica economica. Vediamo perché.
L’economia dell’Unione europea è frammentata lungo le frontiere nazionali. Più in alcuni settori, meno in altri. È la maledizione dell’Europa, che fa da ottant’anni sforzi supremi per integrarsi e unirsi e ci riesce solo in parte. D’altro canto è difficile superare secoli di divisioni, di avversioni, costringere popoli che parlano lingue diverse e nutrono sentimenti dissimili a diventare invece simili, addirittura uniti. L’economia, terreno su cui si svolge gran parte della nostra vita pratica, mostra con grande evidenza questa frammentazione. Le banche ne sono esempio. Un altro esempio è dato dalle società di telecomunicazione, ma ne parleremo un’altra volta.
Le banche europee hanno una forte connotazione nazionale, anche le più grandi, sebbene alcune di loro abbiano fatto qualche sortita fuori dei confini dei paesi d’origine. Nessuno ha dubbi sul fatto che Bnp Paribas sia francese, che Deutsche Bank sia tedesca, che Banco Santander sia spagnola, che Unicredit sia italiana. Intendiamoci, ciò prescinde spesso dalla proprietà. Molte di queste banche sono società quotate in una borsa valori con un azionariato diffuso e globale, in cui prevalgono i fondi d’investimento, che sono soggetti apolidi per definizione, badano solo al rendimento. Se non c’è un socio di controllo, un “padrone”, la nazionalità di qualunque impresa, quindi anche di una banca, è data dal paese in cui ha sede il quartier generale di comando dell’impresa.
Ora, può una grande banca francese, tedesca, spagnola, italiana competere con una grande banca cinese o americana? Non solo nel rispettivo mercato nazionale, ma in quello globale, dell’intero pianeta. Se si guarda alla dimensione, la risposta è no. I numeri parlano chiaro: la classifica S&P Global delle banche del mondo basata sul totale delle attività di bilancio, aggiornata a fine aprile 2024, vede ai primi quattro posti altrettante banche cinesi (da 6,3 a 4,6 trilioni di dollari), seguite da due banche americane (da 3,9 a 3,2 trilioni). La prima banca europea è ottava, la francese Bnp Paribas (2,9), la prima spagnola, Santander, è quattordicesima (2,0), la prima tedesca è ventiseiesima (1,5), la prima italiana, Intesa SanPaolo, è trentaseiesima (1,1). Unicredit è quarantunesima (0,9).
Nessuna di loro è qualificabile come banca europea e basta. Se costruissimo una classifica basata sul valore di borsa (dati Companies Market Cap), il quadro sarebbe addirittura molto più fosco, con la prima banca dell’Unione europea al trentunesimo posto (la spagnola Santander), ISP al trentacinquesimo, UniCredit al quarantaquattresimo; ma non esageriamo, i valori di borsa non sono sempre indicatori oggettivi di performance. Domanda più che legittima: perché guardare solo alla dimensione? E parametri come la prossimità al territorio, la conoscenza soft dei clienti a cui si presta il denaro, i servizi alla clientela minuta? Qui tocchiamo con mano un nodo nevralgico che avviluppa tutte le banche del mondo: stanno cambiando pelle, non sono più, o si avviano a non essere più, quelle che siamo abituati a conoscere.
Quelle la cui missione quasi esclusiva era raccogliere depositi dalle famiglie risparmiatrici del proprio paese o della propria regione e impiegare quel denaro per fare prestiti ad imprese locali conosciute e affidabili. Nel mondo, in misura crescente, le famiglie affidano i loro risparmi ai fondi d’investimento e le imprese medio-grandi si approvvigionano di denaro sul mercato, senza passare dalla tradizionale intermediazione di una banca. Giusto in Italia il ruolo antico delle banche resiste, ed è uno dei segni della nostra arretratezza. Le grandi banche dunque evolvono: dal lato del passivo di bilancio, in gestori di risparmio, cioè in intermediari fra le famiglie e i fondi globali; dal lato dell’attivo, in consulenti delle imprese, da cui ricavano commissioni più che interessi. Per competere fra loro in questi nuovi mestieri, ovunque nel mondo, la dimensione conta, perché implica diversificazione dei prodotti offerti, di investimento o di consulenza, e della clientela servita. Per questa ragione i rappresentanti delle istituzioni europee, sia politiche (la presidente Von der Leyen della Commissione) sia tecniche (Draghi col suo rapporto), vanno invocando fusioni fra banche dell’Unione che facciano nascere grandi soggetti europei, in grado di competere con quelli americani e, certo, anche cinesi. Dunque fusioni preferibilmente trans-frontaliere, che attenuino le divisioni nazionali dando vita a banche pan-europee.
In subordine, anche fusioni nazionali, purché vadano nella direzione di accrescere consistentemente la dimensione delle banche. I governi nazionali non dovrebbero frapporre ostacoli a questa direzione di marcia, per il bene dell’area di cui i loro paesi fanno parte integrante. Non siamo ingenui, sappiamo che nella presente congiuntura politica in molti paesi si sta opponendo una retorica nazionalistica a quella europeistica, divenuta invisa a molti cittadini. Dobbiamo essere però consapevoli che le retoriche sono sempre foriere di disastri, occorre far prevalere l’interesse a un sano compromesso che consenta di aumentare la capacità competitiva dell’Europa tutta, nostro irrinunciabile usbergo comune.