oltre il voto europeo

La prova di forza dell'asse Meloni-Giorgetti

Luciano Capone

Aumento delle accise, fine del Superbonus, tagli del Reddito di cittadinanza, critiche su Patto di Stabilità e sanità. Le europee sono state anche un test sulla politica economica prudente del governo: Palzzo Chigi e Mef l'hanno superato

Le elezioni europee segnano il grande successo politico di Giorgia Meloni: quasi 2,5 milioni di preferenze (battuto il record di Matteo Salvini nel 2019), FdI confermato primo partito del paese e con circa 3 punti percentuali in più rispetto al trionfo delle elezioni politiche del 2022.

Ma al di là dei rapporti di forza tra maggioranza e opposizione e all’interno della stessa maggioranza, il voto è stato un importante test sulla politica economica prudente del governo. E l’asse Meloni-Giorgetti ha superato la prova. Cosa che non era affatto scontata. In primo luogo perché in Europa, soprattutto nella parte occidentale, i governi dei paesi più grandi sono usciti sconfitti (Macron in Francia), azzoppati (Scholz in Germania) o indeboliti (Sánchez in Spagna).

La premier e il ministro non si sono trovati in una fase semplice di politica di bilancio. Se Mario Draghi, all’inizio del suo governo, parlava di “debito buono” e poteva permettersi di dire che “ora è il momento di dare soldi ai cittadini, non di prenderli”, adesso la situazione è opposta. Il debito pubblico italiano è su una dinamica ascendente e tra qualche anno sarà il più alto d’Europa, superando quello della Grecia, e pertanto non è più il momento di “dare soldi” ma di smettere di farlo: negli ultimi quattro anni, l’Italia ha registrato un deficit medio annuo dell’8,5%. Un livello insostenibile, che rende l’aggiustamento fiscale inevitabile.

Sulla politica di bilancio il governo ha avuto una mantenuto una linea responsabile sin dal suo insediamento: da un lato sono stati tagliati diversi programmi di stimolo, dall’altro i pochi spazi disponibili sono stati usati per misure non strutturali come la decontribuzione. Il governo, appena un mese dopo il suo insediamento, ha dovuto gestire la fine degli sconti sulle accise introdotti dal governo Draghi durante il boom dei prezzi dei carburanti. Nonostante il taglio delle accise fosse una storica battaglia di FdI, Meloni ha dovuto fare il contrario: non rinnovare uno sconto che costava circa 10 miliardi all’anno.

Un’altra battaglia è stata la chiusura del Superbonus, la misura più devastante per la finanza pubblica della storia repubblicana e anche la più popolare. Tutti i tentativi del ministro Giorgetti di tappare la falla nei conti pubblici – a partire dal decreto del febbraio 2023 per fino a quello, si spera definitivo, del marzo 2024 – sono stati ostacolati sia dalle opposizioni sia da tutti i partiti di maggioranza, che hanno sempre e costantemente chiesto deroghe e proroghe. Anche dopo che nel 2023 la spesa è esplosa di altri 80 miliardi di euro. Solo l’asse tra Palazzo Chigi e Mef, ovvero l’appoggio politico della premier al ministro dell’Economia, ha consentito di resistere al pressing intenso e trasversale del Parlamento per estendere il bonus edilizio.

Sempre nel corso dei primi mesi, il governo ha fortemente riformato il Reddito di cittadinanza, togliendo o riducendo il sussidio a milioni di cittadini. E ha dovuto man mano ridurre tutti i sussidi contro il caro energia. A tutte queste misure, si sono aggiunte le forti critiche delle opposizioni contro i “tagli alla sanità”, ovvero contro gli aumenti di spesa ritenuti insufficienti rispetto all’inflazione e alle esigenze del Sistema sanitario nazionale, e contro i “tagli ai comuni” per la revisione dei progetti del Pnrr.

In aggiunta, c’è stata una forte campagna contro l’accordo sul Patto di stabilità al termine di una lunga trattativa europea in cui Meloni e Giorgetti sono stati descritti come sconfitti. Le nuove regole fiscali europee sono state descritte come il “ritorno all’austerità”, che avrebbe prodotto “13 miliardi di tagli all’anno”.

La pressione sul governo poco prima delle elezioni è stata forte, tanto che nessuno dei partiti di maggioranza (e neppure di opposizione, ovviamente) ha votato a favore del Patto di stabilità sottoscritto dal governo. La politica di bilancio restrittiva è stata usata anche come grimaldello per scardinare la politica estera, visto che il presunto “aumento delle spese militari” è stato messo in contrapposizione ai “tagli alla sanità”.

Insomma, in un contesto europeo in cui chi governa viene bocciato dagli elettori, vedere aumentare i consensi del partito della premier (e più in generale della coalizione di governo) è una notevole prova di forza per Giorgia Meloni. Ma è anche un’importante prova di resistenza per la politica economica perseguita da Giorgetti, che dimostra che non è necessario essere populisti per essere popolari.

Il percorso di risanamento indicato dal Mef era stato sospeso, come plasticamente dimostrato dall’assenza del quadro programmatico nel Def, in attesa del giudizio degli elettori. Ora che si sono espressi si può proseguire lungo quella strada, il cui tracciato verrà meglio definito dalla prossima Commissione europea.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali