La recessione verde della Germania

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

Berlino riduce le emissioni del 10 per cento, ma è l'effetto del calo del pil e della crisi industriale: non è la strada preferibile per raggiungere Net zero. La chiusura del nucleare è stato un pessimo affare per l’economia tedesca e per il clima

L’anno scorso in Germania sono diminuite del 10% le emissioni di gas serra, la più grande riduzione dal 1990. “Per la prima volta i numeri mostrano che la Germania è sulla strada giusta”, ha detto il ministro dell’Economia e della protezione climatica, il verde Robert Habeck: “Se manteniamo questa rotta, raggiungeremo i nostri obiettivi climatici per il 2030”. Per gli ambientalisti è il successo di una strategia che, in Germania, ha portato allo spegnimento delle centrali nucleari. In realtà, come spesso accade, la situazione è più complessa.

 

Secondo uno studio del think tank ambientalista Agora Energiewende, nel 2023 il paese ha rilasciato nell’atmosfera 673 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, il valore più basso degli ultimi 70 anni: il 9,7% in meno rispetto al 2022 e il 46% al di sotto dell’anno di riferimento (1990). Apparentemente questo risultato avvicina molto il raggiungimento dei target che Berlino ha fissato nella legge sul clima (e che sono più stringenti rispetto a quelli europei), i quali prevedono il taglio delle emissioni del 65% entro il 2030 per arrivare alla neutralità carbonica nel 2045. E questo, appunto, nonostante il 15 aprile 2023 siano state spente le ultime tre centrali nucleari attive che producevano energia elettrica senza emissioni. Tutto bene, quindi? Non esattamente.

 

Questo apparente successo è il prodotto di diversi fattori non tutti positivi. Lo ammette la stessa Agora Energiewende, secondo cui “appena il 15% della CO2 abbattuta riflette una riduzione permanente delle emissioni derivante dall’aumento dell’energia rinnovabile, dall’efficienza e dalla sostituzione con combustibili che producono meno CO2 o altre alternative più sostenibili”.

Il calo emissivo del 2023 deriva soprattutto da due fenomeni: il crollo dell’uso del carbone (che da solo spiega 44 milioni di tonnellate di CO2 in meno su 73 milioni complessive) e le minori emissioni da processi industriali. A sua volta, la minore domanda di carbone è la conseguenza della riduzione dei consumi di energia elettrica, principalmente da parte dell’industria. È la recessione, bellezza! Il 2023 è stato un annus horribilis per l’economia tedesca, con una contrazione del pil dello 0,3% e una perdita dell’11% della produzione industriale nei settori energivori.

Le energie rinnovabili hanno quindi raggiunto una percentuale record (il 19,6% dei consumi finali e oltre il 50% della domanda elettrica), ma si tratta in gran parte di un effetto ottico: a dispetto dei sostanziali aumenti di capacità installata fotovoltaica (14,4 GW) ed eolica (2,9 GW), l’apporto al fabbisogno energetico complessivo è cresciuto solo del 2%, da 575 a 588 TWh. A questo si aggiunge un terzo elemento che ha reso più pulito il mix energetico: l’incremento dell’import di energia elettrica dall’estero, circa 69 TWh, di cui il 49% rinnovabile e il 24% nucleare (!), a fronte di una riduzione dell’export.

 

In altre parole, la Germania ha sì raggiunto un risultato ambientale importante, ma ciò dipende essenzialmente dal cattivo andamento dell’economia (che sembra confermato nel primo trimestre 2024, sebbene le previsioni puntino a una debole crescita dello 0,2% in corso d’anno). Le cause della recessione sono diverse. Tuttavia molti, a torto o a ragione, le attribuiscono in parte proprio alle politiche per la transizione, che stanno mettendo in difficoltà alcuni settori industriali (già colpiti dallo choc energetico), a partire dall’automotive, e che potrebbero acuirsi con la fine della distribuzione gratuita di quote di CO2 e l’avvio del Cbam (il dazio sul contenuto carbonico delle importazioni).

È anche per questo che il governo tedesco ha frenato, per richiesta soprattutto (ma non solo) dei liberali, su provvedimenti quali l’abbandono del motore endotermico nel 2035 e il bando delle caldaie a gas nel 2025.

 

L’impasse economica ha sostanzialmente mascherato la perdita del contributo del nucleare (105 TWh nel 2022 e 209 nel 2021). Ma se l’economia si riprenderà, come tutti in Germania sperano, il carbone tornerà a crescere. Sembra banale dirlo, ma se gli impianti atomici fossero restati in esercizio, l’energia rinnovabile si sarebbe aggiunta a essi, abbattendo ulteriormente l’uso del carbone e aumentando la quota di energia decarbonizzata.

Un lavoro di alcuni anni fa degli economisti Stephen Jarvis, Olivier Deschenes e Akshaya Jha ha stimato che, a parità di altre condizioni, l’abbandono del nucleare comporta un aumento delle emissioni di circa 26,2 milioni di tonnellate annue.

A meno che non si consideri la decrescita una buona strategia ambientale – d’altronde fino a poco tempo fa, vedendo l’impatto del Covid sulle emissioni, c’era chi invocava il lockdown climatico – la chiusura del nucleare tedesco è stato un pessimo affare per l’economia e per il clima, rendendo più complesso e costoso il percorso verso net zero.