Biden frena il Gln, ma non c'è da temere
Il presidente degli Stati Uniti mette in pausa le esportazioni di gas liquefatto, ma è solo tattica (per ora). Gli effetti di lungo termine sono tutti da capire
Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha tirato il freno a mano sui nuovi treni di liquefazione per il gas. Nel breve termine è un puro segnale politico alla sinistra democratica e agli ambientalisti. “Studieremo nel dettaglio gli impatti dell’export di Gnl sui costi dell’energia, sulla sicurezza energetica e sull’ambiente – ha detto Biden – Questa pausa vede la crisi climatica per quello che è: la minaccia esistenziale del nostro tempo”. Gli effetti di lungo termine sono tutti da capire.
Storicamente, gli Usa erano un paese importatore di materie prime energetiche. Grazie alla rivoluzione dello shale, sono diventati il maggior produttore mondiale di petrolio e gas: tale abbondanza ha completamente cambiato le carte in tavola e, in epoca Barack Obama, ha fatto cadere il tabù sulle vendite all’estero. Nel 2016 non c’era neppure un terminale di liquefazione negli Stati Uniti: oggi ce ne sono sette con una capacità congiunta di 120 miliardi di metri cubi all’anno, ed entro il 2027 se ne aggiungeranno altri cinque, più che raddoppiando la capacità complessiva arrivando a 251 miliardi di metri cubi. Questo incremento non è messo a rischio dalla decisione di ieri di Biden.
In discussione sono i futuri sviluppi. Nel comunicare la notizia, la Casa Bianca ha ribadito il proprio impegno a sostenere gli alleati, e in particolare l’Europa, che senza il gas americano non avrebbe retto la chiusura dei gasdotti russi. In controluce, si legge un ritorno (pur smentito a parole) al vecchio protezionismo energetico: come se la Casa Bianca volesse dire che fermare le esportazioni di gas è un modo per non importare gli alti prezzi energetici dell’Ue e dell’Asia. In concreto, il presidente ha stabilito una moratoria sulle nuove autorizzazioni, in particolare verso paesi che non hanno accordi di libero scambio con Washington. Formalmente, si attende una revisione dei criteri finora utilizzati (che risalgono al 2018) nei procedimenti. Secondo il consigliere del presidente sul clima, Ali Zaidi, è necessario un approfondimento sulle perdite di metano e sugli effetti che esse possono avere sul riscaldamento dell’atmosfera.
Tuttavia, se la “pausa” annunciata da Biden diventasse un’inversione a U, non è detto che le conseguenze sarebbero quelle sperate. La prospettiva di un taglio delle esportazioni avrà infatti due principali conseguenze: ridurre la propensione dell’industria americana a investire in nuovo gas e obbligare i paesi esteri a cercare il gas altrove, o a rimpiazzarlo con altre fonti energetiche che non necessariamente saranno le rinnovabili. Il presidente di ConservAmerica (un’organizzazione ambientalista di area repubblicana), Jeffrey Kupfer, un passato nell’amministrazione di Bush Jr., ha scritto sul Wall Street Journal che il gas americano “ha spiazzato vaste quantità di carbone in Asia”, oltre a garantire un supporto vitale all’Europa e ad aver creato occupazione negli Usa. La decisione di Biden lascia comunque uno spiraglio: pur strizzando l’occhio a quella parte del suo elettorato più sensibile ai temi ambientali, la revisione delle regole non comporta di per sé il blocco dei nuovi terminali, semplicemente rinvia qualunque decisione a dopo novembre (e dopo le elezioni presidenziali). Così, Biden potrà dire contemporaneamente di aver fermato il progetto di Calcasieu Pass 2 in Louisiana, accontentando gli attivisti, e di non aver preso una decisione definitiva, rassicurando gli investitori. Di certo, il rischio è alto: come ha commentato Javier Blas di Bloomberg, “l’idea che rallentare i progetti americani di nuovi terminali sia una vittoria per il clima è molto miope: è una vittoria del carbone (e del Qatar)”.
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