Federico Freni - Ansa 

L'analisi

Spunti europeisti per difendere il Patto di stabilità e capire la nuova fase

Federico Freni

Dopo l'intesa trovata dai 27 ministri all'Ecofin, ora la sfida dell'Italia è preservare e accrescere lo spirito unitario del Patto per riscoprirci non ospiti a casa d'altri, ma proprietari di un bene comune: l'Europa

Al direttore - L’accordo raggiunto all’Ecofin sul nuovo Patto di stabilità e crescita merita, prima ancora che una riflessione sui punti qualificanti dell’intesa, una breve ma ineludibile nota introduttiva relativa al metodo. Sì, il metodo, perché il compromesso maturato tra i ministri delle Finanze dei 27 Paesi dell’Unione europea ha innanzitutto un valore politico su cui è giusto, direi anzi doveroso, soffermarsi. È un rinnovato spirito unitario, fieramente europeo, ad aver ispirato la stesura finale delle regole fiscali che faranno da cornice e da braccio operativo alla politica economica dell’Europa nei prossimi anni. La complessità della genesi del nuovo Patto, attraversata anche da dinamiche bilaterali, ha rappresentato indubbiamente una “prova di forza” tra visioni differenti per una sfida che doveva essere (e così è stata alla fine) necessariamente condivisa. O l’Europa è o non è. E questa volta, senza il vizio dell’accento retorico, l’Europa è stata all’altezza del suo ruolo, trovando un compromesso su regole comuni. Ispirandosi a questa convinzione, il governo italiano ha lavorato, fin dall’inizio, per arrivare ad un Patto che tenesse conto delle condizioni macroeconomiche di tutti i paesi, senza distinzioni tra quelli “virtuosi” (o presunti tali) e quelli “non virtuosi” (o altrettanto presunti tali).

E questo è, orgogliosamente, il primo risultato che l’Italia è riuscita a portare a casa, attraverso una convergenza unanime, che si è tradotta nell’accordo finale. Il testo sottoscritto dai 27 ministri non ha accolto tutte le richieste avanzate dal nostro paese. Ma si sa, “il meglio è nemico del bene”. Vengo, dunque, alle ragioni qualificanti del nuovo Patto, anche per rispondere ad alcuni spunti di riflessione critici pubblicati dal vostro giornale ieri. Parto da quella che fa da cornice a tutte le altre: un percorso di risanamento più “morbido” per i Paesi, come l’Italia, che presentano un rapporto debito/Pil superiore al 90%. Il ritmo di aggiustamento del deficit primario strutturale da rispettare, non è una concessione. Non è un assist a quello che per troppo tempo è stato letto come un atteggiamento giustificatorio e volutamente dilatorio. Al contrario è in linea con gli impegni che il governo ha già assunto con la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, come si evince dai numeri che hanno fatto da cornice alla legge di bilancio in via di approvazione in Parlamento: da -5,9% di quest’anno si passerà infatti, nel 2024, a - 4,8%. L’aggiustamento, quindi, sarà pari a 1,1 punti, ben superiore a quanto previsto dalle nuove regole fiscali. E il percorso di riduzione del deficit strutturale, negli anni a seguire, garantirà una perfetta corrispondenza con i nuovi obiettivi che l’intera Europa si è posta.

Un impegno che l’Italia è in grado di garantire in sette anni in ragione del riconoscimento dell’impegno sulle riforme e sugli investimenti. Anche l’obiettivo base per i prossimi anni, in cui avremo un deficit superiore al 3%, un aggiustamento strutturale di almeno lo 0,5% del Pil, è comunque ampiamente raggiungibile e già contemplato, di fatto, nella stessa Nadef. Ma al di là dei numeri, il dato rilevante è un altro: la correzione non è vista più come un sacrificio da imporre, ma come la presa d’atto di un percorso che ha bisogno di un tempo giusto ed ordinato, per coniugare l’equilibrio delle finanze pubbliche e la spinta alla crescita, che può essere alimentata solo se gli investimenti non risultano strozzati, e quindi limitati, da un contesto depressivo che ne svilisce il valore. Un tempo giusto ed ordinato è, appunto, quello indicato nel nuovo Patto.
 

E vengo così al secondo elemento, collegato al primo: gli investimenti. Rappresentano il contrappeso della gradualità scelta per far sì che l’Italia, e non solo, possa intraprendere un percorso di aggiustamento sostenibile. Gli investimenti, e in particolare quelli legati alla transizione digitale e green, pilastri del Piano nazionale di ripresa e resilienza, sono stati riconosciuti come elementi qualificanti e, allo stesso tempo, condizione per un percorso di correzione più lungo. Non un alibi, ma la validazione di una politica, dedicata appunto agli investimenti, che deve porsi a complemento della salvaguardia delle finanze pubbliche, non in contrapposizione. Non è un do ut des, ma un cambio di prospettiva rilevante. Un’evoluzione del ruolo che l’Europa, fin dalla sua fondazione, ha riconosciuto alle riforme, diventate negli anni un benchmark qualificante per misurare l’attuazione delle politiche europee da parte dei Paesi membri. Il ruolo preminente riconosciuto agli investimenti, quale elemento abilitante delle riforme, rende la sfida ancora più avvincente, oltre che necessaria; soprattutto ora che l’Europa è chiamata a fronteggiare una competizione globale che si è fatta ancora più complessa e che vede gli altri “blocchi” avanzare sul fronte degli investimenti, soprattutto su quelli dedicati alla transizione energetica. Eccolo, lo spirito unitario del Patto. Preservarlo nel tempo, alimentarlo e accrescerlo: è questa la prossima sfida che abbiamo di fronte. Per riscoprirci, nell’interesse del paese, non ospiti a casa d’altri, ma proprietari di un bene comune. In una parola, italiani ed europei.
Federico Freni

Federico Freni è deputato della Lega e sottosegretario al ministero dell’Economia e della finanze