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l'analisi

Da Satispay a Scalapay, i neocapitalisti si aggirano per l'Italia

Roberto Mania

Nuove aziende innovative. Il venture capital è il motore di questa nuova era, che ha accelerato la trasformazione delle startup in imprese stabili. Nel paese, nel 2022, gli investimenti hanno superato i due miliardi

I neocapitalisti si aggirano per l’Italia. Le loro aziende si chiamano Satispay, Scalapay, Casavo, Bending Spoons e così via. Alcune sono “unicorni” (appellativo che si affibbia a quelle startup che da zero raggiungono il miliardo di valore), altre lo saranno presto, altre – infine – saranno comprate da fondi o imprese italiane o straniere oppure chiuderanno. Perché così funziona il mercato, senza scandalo. Questo è un nuovo capitalismo che convive con quello antico e anche con lo stato (innovatore). Negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania così come in Spagna ci sono arrivati prima spinti da tanti investimenti a sei cifre; noi ci stiamo arrivando con passi accelerati, nonostante la congiuntura negativa e le nubi recessive, nonostante una resistente borbonica burocrazia, nonostante la giustizia (in)civile, nonostante la politica appassionata ai vecchi dossier incancreniti diventati sociali più che economico-finanziari, Mps, ex Telecom, ex Ilva, ex Alitalia (nei quali il prefisso dice davvero tutto), nonostante l’inaffondabile cultura anticapitalista di matrice catto-comunista. C’è dell’altro nell’Italia claudicante per via del caro-energia, dei suoi ritardi endemici e – ora – anche delle infantili suggestioni protezionistiche.

 

Innocenzo Cipolletta, presidente dell’Aifi (l’associazione del private equity, venture capital e private debt) dal curriculum pesante (ex Confindustria, ex Assonime, ex Ferrovie dello stato) dice che stiamo assistendo a “una rottura del vecchio paradigma, a un cambio culturale, all’affermazione di nuovi protagonisti e nuove imprese”. E che i “nuovi capitalisti” si muovono nei settori non occupati dagli altri. Perché la storia del capitalismo è storia di innovazioni, che in fondo non sono altro che derivazioni della distruzione creatrice indagata da Joseph Alois Schumpeter. 

 

Le imprese di cui parliamo sono innovative e fanno qualcosa che prima non c’era, nel fintech, nelle nanotecnologie, nella sanità, nel real estate, nel food, ecc. Satispay ci permette di fare i pagamenti con lo smartphone senza costi aggiuntivi, Scalapay di pagare a rate i nostri acquisti grazie a un’app, Casavo ci facilita la compravendita degli immobili. Accanto all’idea (maturata sempre più spesso nelle aule delle nostre buone università e non nei sottoscala o nei garage come vorrebbe la retorica più o meno à la page ) è sceso in campo “il capitale”. È il venture capital il motore di questa nuova era, alternativo al difficile accesso al credito bancario per aziende neonate fragilissime. Sono gli investimenti dei venture capitalist (nomi nuovi di ricercatori divenuti imprenditori ma anche blasonati, gli eredi della famiglia Agnelli, i giovani Berlusconi e poi i grandi gruppi bancari come Intesa e le nostre corporation, Leonardo, Poste, Ferrovie, Enel, Tim) che hanno accelerato la trasformazione delle migliori startup in imprese stabili, con fatturati e occupazione in crescita, capaci di conquistare quote di nuovi mercati e di acquisire altre aziende. Satispay, la piattaforma di mobile payment fondata nel 2013 da Alberto Dalmasso, Dario Brignone e Samuele Pinta, ha raggiunto il miliardo di valore con l’ingresso, tra gli altri, anche del fondo americano Addition.

 

E nell’ultimo round di investimento c’erano pure Block, Mediolanum, Tencent, Lightrock, Coatue. Oggi Dalmasso, ceo di Satispay, non ha alcuna intenzione di vendere e diventare ricco. Vuole fare l’imprenditore (in cerca di capitali) e non mira al “nocciolino” a garanzia del controllo dell’azienda (a proposito di Telecom…) dei capitalisti senza capitali che ben abbiamo sperimentato. Dice – ancora – che vuole “cambiare il mondo”, perché si ispira a Steve Jobs, e punta a far diventare la sua società il primo strumento di pagamento elettronico in Europa. L’headquarter sta a Milano, ma Satispay ha uffici anche in Francia, Lussemburgo e Germania. Ha oltre tre milioni di utenti, più di 200 dipendenti.

 

Talenti, competenze, giovani. Già, per rispolverare l’ormai classico “la nuova geografia del lavoro” dell’economista italiano apprezzato anche da Barack Obama, Enrico Moretti, è bene ricordare che “per ogni nuovo posto di lavoro ad alto contenuto tecnologico creatosi in una città vengono a prodursi cinque nuovi posti, frutto indiretto del settore hi-tech di quella città; e si tratta di occupazioni professionalmente qualificate (avvocati, insegnanti, infermieri) sia di occupazioni non qualificate (camerieri, parrucchieri, carpentieri)”. È il mondo nuovo che si può già vedere (anche in Italia), un sommovimento che muta l’ecosistema economico e innovativo. In un articolo pubblicato qualche anno fa sul sito lavoce.info Samuele Murtinu e Annalisa Croce illustrano i risultati di una loro ricerca: il venture capital contribuisce ad aumentare la crescita della produttività multifattoriale di circa il 18 per cento rispetto ai quattro anni precedenti il finanziamento. In Italia la crescita della produttività si attesta intorno al 20 per cento, in Gran Bretagna oltre il 40 per cento.  

 

Ha ragione, dunque, Giovanni Gorno Tempini, presidente di Cassa depositi e prestiti, quando (intervistato dalla Stampa il 2 gennaio scorso) afferma che il venture capital “è un indicatore di innovazione a cui non si bada mai abbastanza. Siamo ancora indietro rispetto ai francesi e tedeschi, ma il mercato cresce a ritmo esponenziale. È positivo. Vuol dire che l’imprenditoria si sta rinnovando. Anche nelle regioni del Sud, particolarmente in Campania e Lazio”. I numeri dicono che nel corso del 2022 gli investimenti in venture capital in Italia hanno superato i due miliardi di euro, un incremento di quasi il 70 per cento rispetto al 2021. E tuttavia, per comprendere il ritardo nei confronti degli altri paesi europei si possono comparare i dati relativi al 2021 e riguardanti gli investimenti in private equity e venture capital: 15 miliardi in Italia, 36 in Francia, 40  in Gran Bretagna, 13 in Germania. Passando alle società target: 654 in Italia, 2.495 in Francia, 1.853 in Gran Bretagna, 958 in Germania. Ancora: in Francia c’è un fondo di venture capital ogni 150 startup, in Italia ogni 210. Siamo decisamente indietro.

 

Però stiamo, nel nostro piccolo mercato, iniziando a recuperare. Certamente per questa via passa anche la lotta alla denatalità delle imprese, grave almeno quanto quella demografica. Una ricerca dell’Istituto Bruno Leoni sul dinamismo imprenditoriale dimostra che negli ultimi trent’anni il tasso di natalità delle imprese è passato dal 3 per cento circa di fine anni Ottanta dello scorso secolo all’1 per cento dei primi anni del nuovo secolo per attestarsi intorno alla zero nell’ultimo decennio. Ma senza nuove imprese non c’è innovazione. Qui si spiega molto della nostra antica fatica a crescere e della decrescita della produttività complessiva. Ci hanno dato una mano – paradossalmente - la pandemia che ha mutato l’organizzazione delle nostre vite e dei nostri lavori, e la digitalizzazione con il drastico taglio dei costi che permette iniziative altrimenti irrealizzabili.

 

C’è, infine, un ultimo aspetto per nulla secondario. Anzi: il ruolo delle risorse pubbliche attraverso la Cdp. La decisione, circa due anni e mezzo fa, di mettere sul tavolo del venture capital quasi due miliardi ha dato l’impulso decisivo al decollo di questo meccanismo di finanziamento. Cdp è protagonista di questa nuova era. Buoni capitali pubblici, ecco. È esattamente quel che è già accaduto in Europa, negli Stati Uniti, in Israele e anche in Cina (Tencent e Alibaba sono decollate con i venture capital al pari di Google e Facebook). Sequoia, il gigante americano del venture capital, è uno dei maggiori investitori in Cina, per dire. Per ora accontentiamoci di Cdp. Ma attenzione alla bramosia della politica: questo neocapitalismo misto ha bisogno di visioni, non di lottizzazioni. 

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