Times Square, New York (Foto Unsplash)

La lettera

Sia lode al capitalismo, motore del mondo. Ma ora dategli un aiuto “spirituale”

Michele Silenzi

Larry Fink, fondadore e ceo della società d'investimento Blackrock, elogia le possibilità del mercato e offre una serie di riflessioni sullo sviluppo dell'economia e sul rapporto tra pubblico e privato. Dalla transizione ecologica, senza ossessioni ideologiche, all'abbraccio con le istanze woke

Vi è che uno dei più importanti uomini dell’economia mondiale, Larry Fink, fondatore e ceo di Blackrock, colossale società d’investimento americana, in una lettera inviata ai capi delle aziende in cui sono investiti i soldi che gestiscono non ha paura di dire che il capitalismo e i suoi frutti sono cosa buona e giusta. Anzi, che il capitalismo è il motore del mondo, di ciò che di produttivo e creativo vi succede, che apre scenari impensabili anche nei luoghi più remoti grazie alla liquidità a buon mercato, alle opportunità che offre a giovani con idee buone che in altri tempi non sarebbero stati in grado di accedere al credito. Tutte cose che chi vuole può vedere con chiarezza. Ma questa lettera di Fink è una notizia perché siamo in tempi woke in cui dire che un essere vivente che ha le mestruazioni è una femmina (copyright J. K. Rowling) risulta scandaloso. 

 

Fink mostra come la forza del capitalismo non stia in qualche agenda politica o sociale ma nelle mutue relazioni d’interesse che legano tutti coloro che gravitano attorno a un’azienda. Descrive la necessità di attirare i talenti, il giusto salario, il miglioramento costante del rapporto impiegato-datore di lavoro, la conciliazione di profitto e investimento di lungo termine. Ma siccome neppure il capitalismo è un pranzo di gala, le aziende vivono all’interno di quell’ambiente e per mezzo di quell’ecologia industriale che è la distruzione creatrice. Vitale evoluzione superaccelerata dal Covid. E allora certo, aziende poco efficienti scompariranno lungo la via, ma solo così che altre possano essere create e dare vita a nuove idee, nuovi imprenditori, nuove comunità, nuovi portatori d’interesse.

 

Fink dedica poi spazio alla transizione ecologica, la ritiene necessaria ma con tempi e modi ragionevoli che magari dovranno essere ripensati senza cedere a ossessioni ideologiche. E la frase in cui spiega come, da investitori, si concentrano sul tema della sostenibilità non perché siano ambientalisti ma perché capitalisti, mostra in maniera plastica il significato della misterica formula “convergenze parallele”. Chiude la lettera con un omaggio alla collaborazione tra pubblico e privato che dovrà continuare per raggiungere nuove formidabili vette come accaduto già nell’emergenza Covid. 

 

Tuttavia, è proprio la conclusione che potrebbe darci da pensare. Il doppio rimando alla transizione ecologica e alla collaborazione con il pubblico. Può esistere un punto in cui il capitalismo, nel suo spontaneo meccanismo di orientamento e ricerca di opportunità d’investimento si saldi in maniera inevitabile a quelle istanze pubbliche, woke per intenderci, o “gretathunbergiane”, e non riesca più ad assimilarle? E che anzi sia assimilato da quelle istanze spirituali che sembrano incarnare nuove forme di religiosità, ideologie radicali eppure ormai così pervasive nelle nostre società? Esiste la possibilità che la plateale verità del capitalismo descritta da Fink collida in maniera irrimediabile ed esiziale con questa “domanda di senso” che viene dai “consumatori” ma è incarnata da religioni laiche ostili al capitalismo, forze che pervadono in maniera sempre più totalizzante l’ordine del discorso pubblico? Esiste la possibilità di un punto in cui l’evoluzione fatta di distruzione creatrice che sempre si rinnova sia costretta da quello stesso pubblico (che ovviamente non è solo lo stato ma la struttura globale dell’opinione) a fermarsi perché le istanze spirituali del pubblico (e della sua rappresentanza politica) sono radicalmente opposte a essa? 

 

C’è il pericolo, infine, che la libera azione umana di cui il capitalismo è la più produttiva e pacifica espressione possa diventare preda di istanze pubbliche costruttiviste che lo anneghino nella volontà cieca di un “mondo migliore”, di una palingenesi spirituale globale di fronte a cui la dinamica capitalista potrebbe cedere, dopo averci flirtato, se non avrà la forza di assimilarla? Ma è davvero possibile assimilare una certa forma mentis senza esserne radicalmente cambiati, senza veder soppressa quella stessa mutevole adattiva scintilla che caratterizza il capitalismo e che valorizza in modo assoluto l’azione umana che si apre al futuro con senso di realtà e non con ossessione utopistica? Forse, al semplice formidabile funzionamento del capitalismo bisognerà presto o tardi affiancare un’istanza “intellettuale-spirituale” (che non significa certo moralistica o “sociale”) che sia in grado di supportarlo nel suo sviluppo. I consumatori lo chiedono.

 

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