Foto di Mauro Scrobogna, via LaPresse  

l'analisi

Tridico e il moto perpetuo sulla previdenza facoltativa

Mario Seminerio

Il presidente dell'Inps rilancia il suo vecchio progetto: un fondo pensione complementare pubblico a capitalizzazione. L'obiettivo è integrare i redditi dei soggetti “più lontani dalla previdenza integrativa”. Ma serve davvero?

Nel corso di un’audizione davanti alla commissione Sanità e Lavoro del Senato, il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ha rilanciato un suo antico progetto: un fondo di previdenza complementare pubblico, a capitalizzazione, amministrato dall’istituto di previdenza e gestito da Cassa depositi e prestiti, la cui finalità sarebbe quella di integrare i redditi dei soggetti “più lontani dalla previdenza integrativa”. Poiché, come ben sappiamo, nulla si getta, i cassetti di politici e “tecnici d’area” sono sempre traboccanti di meravigliose idee che attendono solo di essere realizzate per condurre il nostro paese verso la felicità che si merita.

 

Tridico ha ribadito le sue doglianze circa l’attuale situazione della previdenza complementare: ad esempio, che i fondi pensione hanno un patrimonio di oltre 270 miliardi di euro ma coinvolgono solo il 22 per cento dei lavoratori, soprattutto maschi e delle regioni settentrionali. Ma anche che tale patrimonio è investito per l’80 per cento fuori dall’Italia, sottraendo (a suo giudizio) opportunità di crescita domestica. Quest’ultimo punto è ormai la costante del patriottismo finanziario italiano, pronto a lanciare accuse di disfattismo a chiunque pensi di diversificare gli investimenti.

 

Tridico ha tratteggiato dunque un fondo integrativo pubblico a capitalizzazione, da valorizzare con investimenti in titoli di stato e fondi infrastrutturali a sostegno dell’immancabile transizione ecologica, e segnalato l’opportunità di un “travaso” tra tale fondo facoltativo e quello obbligatorio per giungere agli agognati pensionamenti anticipati, che ormai sono l’orizzonte strategico di questo paese, “a costo zero” per le casse pubbliche.

 

Premesso che questo obiettivo è perfettamente conseguibile anche con gli attuali fondi complementari privati (si chiama Rita, Rendita integrativa temporanea anticipata, sotto condizioni), ci si domanda da dove attingere per alimentare la cornucopia, visto che i redditi di lavoro stagnano e la capacità di risparmio flette. La risposta risiede nel considerare il fondo un salvadanaio dove terzi, ad esempio genitori e nonni, potrebbero integrare la contribuzione dei giovani ancora lontani dal lavoro o precari, o sostituirsi ad essa. Sempre ammesso di averne capacità patrimoniale, s’intende. Ma questa facoltà è già prevista dalle normative vigenti, entro un tetto di contribuzione. Si continua quindi a non vedere l’utilità di un fondo previdenziale complementare pubblico.

 

Prima di inventare il moto perpetuo pubblico del secondo pilastro contributivo, è utile segnalare al presidente Inps che già oggi è possibile superare il tetto annuo di 5.164,57 euro di contributi deducibili: per un lavoratore alla prima occupazione, nei primi cinque anni di partecipazione alla previdenza integrativa, la differenza tra quanto versato ogni anno e i 5.164 euro si “accumula” come bonus da sfruttare dal sesto anno di partecipazione e per i 20 anni successivi e nel limite annuo di 2.582 euro aggiuntivi ai 5.164 euro disponibili. Inoltre, un genitore può già versare a favore del figlio fiscalmente a carico, entro la soglia annua di 5.164 euro, se non raggiunta. Se invece lo fosse, si può comunque versare a favore del figlio e dichiarare questi “contributi non dedotti”, che saranno così esenti in sede di erogazione della pensione integrativa. Davvero serve un fondo complementare pubblico? 

 

Interessante poi il momento dell’audizione in cui il presidente Inps segnala l’onerosità dei fondi complementari privati, a cui quello pubblico potrebbe ovviare. Un rendimento del 3 per cento potrebbe diventare, dopo le commissioni, uno striminizito 1 per cento, ha detto Tridico. La cosa non avrà fatto piacere ai sindacati, che presidiano saldamente i cda dei fondi pensione di categoria, ma transeat. 

 

Il punto vero è un altro: la crescente concupiscenza verso il risparmio privato, da dirottare alla sostenibilità del debito pubblico e di un welfare reso sempre più impervio dalla decrescita demografica. A proposito: come si concilia la vocazione “solidaristica” (i.e. redistributiva) dei sistemi di assistenza pubblica con quella “egoistica” del secondo pilastro a capitalizzazione? Ma soprattutto, si continua a stravolgere i flussi causali: se un paese cresce e crea opportunità di investimento, i soldi (anche e soprattutto esteri) arrivano. Senza bisogno di denunciare improbabili “fallimenti del mercato” o l’immancabile “speculazione finanziaria”. 

Di più su questi argomenti: