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Cosa ancora non torna nella formula di Tridico sul salario minimo

Luciano Capone

L'Inps specifica il metodo che ha portato a individuare i 9 euro: tutto dipende dalla selezione di una platea molto ristretta di dipendenti ad alto reddito che fa alzare la media. Sul salario minimo, più che dare numeri finali serve trasparenza su come vengono definiti i criteri per arrivarci

Sul Foglio avevamo criticato la formula con cui il presidente dell’Inps Pasquale Tridico ha giustificato i 9 euro l’ora, la cifra indicata dal M5s, come livello giusto per il salario minimo. La direttiva europea indica come criteri il 50% del salario medio o il 60% del salario mediano e pertanto, dice Tridico, essendo questi due dati pari a 7,65 euro (mediana) e 10,60 euro (media), la media tra i due valori fa proprio 9 euro.

 

La nostra critica riguardava il metodo singolare (la media fra media e mediana) e la natura dei dati, che riflettono non solo un elevato livello del salario medio ma anche un’enorme differenza con quello mediano e che non sembrano corrispondere alla realtà. Se infatti il 50% del salario medio è di 10,60 euro l’ora, vuol dire che il salario medio di un lavoratore è di 21,20 euro l'ora (secondo l’Istat è 15,80 euro). Una cifra abnorme, pari a oltre 3.600 euro al mese. I tecnici dell’Inps ci spiegano quali sono i criteri che hanno portato a questo risultato: si tratta solo di lavoratori dipendenti full time, full year, con contratti a tempo indeterminato e includendo tredicesima e quattordicesima (dati 2019). Così si arriva a 21,20 euro l’ora. La mediana, secondo gli stessi criteri, è 12,75 euro. Da qui i due dati 7,65 euro (60% del salario mediano) e 10,60 euro (50% del medio). Ma anche questa spiegazione lascia alcune perplessità.

 

La prima è la definizione della platea, che non rappresenta affatto tutto il mondo del lavoro italiano ma solo un pezzo, la fascia più alta, meno di un terzo del totale: sono esclusi lavoratori agricoli, domestici, a tempo determinato, stagionali, apprendisti, somministrati... L’altra riguarda la cifra. Secondo il XIX Rapporto Inps (pag. 135) la retribuzione media di un lavoratore full time, full year e a tempo indeterminato è pari a 119 euro al giorno, ovvero 18 euro l’ora (considerando 6,6 ore al giorno, 40 ore settimanali su sei giorni). Anche in questo caso il dato di partenza è l’imponibile previdenziale, quindi inclusivo di tredicesima e quattordicesima: stessa platea, ma rispetto ai 21,2 euro c’è ancora un gap ampio di 3,2 euro. L’Inps dice che il divario è dovuto al fatto che in un caso si usa la retribuzione annuale del lavoratore e nel secondo quella mensile del rapporto di lavoro: “La differenza tra 18 euro orarie i 21,2 si può attribuire in buona parte alla definizione dell’unità statistica di base, rapporti di lavoro mensili piuttosto che teste nell’anno, che significa, per esempio, che la retribuzione di un lavoratore che nell’anno ha avuto una trasformazione da tempo determinato a tempo indeterminato è presente nella prima definizione mentre nella seconda è escluso il periodo di contratto a tempo determinato. Questo comporta una livello retributivo più basso nel primo caso”.

 

Ma ammesso che questi siano i dati, che senso ha selezionare una platea così ristretta con criteri che danno risultati così distorti, con una media quasi doppia della mediana? Che utilità ha per fissare il salario minimo se alla fine il risultato è 9 euro, pari all’80% del salario mediano che farebbe del salario minimo italiano il più alto dell’Ocse e 20 punti sopra la soglia indicata dall’Ue? Quale motivazione scientifica c’è alla base della scelta di una “unità statistica” anziché un’altra se i risultati sono così differenti? L’individuazione del livello è la questione più delicata del salario minimo, è il punto a cui arrivare e non quello da cui partire. Pertanto più che dare i numeri finali, è importante definire con serietà e trasparenza i criteri che servono individuare la soglia adeguata. Questo dovrebbe essere il ruolo dell’Inps.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali