(foto EPA)

Tutto quello che non capiscono sul futuro dell'economia italiana i critici superficiali della Bce

Lorenzo Bini Smaghi

La decisione di Francoforte di alzare i tassi d'interesse è stata fortemente criticata. Ma l'indipendenza dell'istituto è proprio orientata a cercare di stabilizzare i prezzi e resistere alle pressioni politiche a breve termine

La principale critica che viene fatta alla decisione della Banca centrale europea di aumentare i tassi d’interesse è che tale misura non è efficace – anzi è dannosa – per far fronte all’inflazione che sta attualmente colpendo i paesi europei. Non si tratta in effetti di una tipica inflazione “da domanda”, provocata da un surriscaldamento dell’attività economica ma piuttosto da inflazione “da costi”, che riguarda in particolare prodotti importati, come l’energia, dovuta soprattutto a strozzature di offerta. Questo secondo tipo di inflazione non si combatte con tassi d’interesse più elevati ma con misure di altro tipo, che incidono sulla produzione di prodotti primari.

Tale argomentazione, avanzata non solo da esponenti politici ma anche da vari osservatori, è profondamente sbagliata. In primo luogo, è smentita dai dati. L’inflazione attuale non è determinata solo da aumenti di prezzi di prodotti importati, in particolare quelli energetici, ma da incrementi generalizzati di beni e servizi. Esaminando il dato più recente, relativo a novembre 2022, l’indice complessivo dei prezzi al consumo dell’area dell’euro è salito del 10,1 per cento. Se si escludono i prodotti alimentari, energetici, gli alcolici e i tabacchi, l’indice è salito del 5 per cento. Si tratta di un ritmo inferiore a quello generale, ma comunque ben superiore a quello considerato coerente con la stabilità dei prezzi, ossia il 2 per cento. In altre parole, non siamo di fronte a inflazione solo importata ma anche generata all’interno del sistema economico.

 

Considerando le previsioni per i prossimi anni, nel 2023 l’inflazione media dovrebbe attestarsi intono al 6,3 per cento secondo la Bce, per poi scendere al 3,6 alla fine del prossimo anno e rimanere superiore al 2 nel corso del 2025. I maligni sostengono che le previsioni della Bce sono eccessivamente pessimistiche, forse mirate a giustificare una politica monetaria restrittiva. In realtà il confronto con altre istituzioni internazionali mostra che non ci sono differenze significative. Ad esempio, le ultime previsioni dell’Ocse, che risalgono a novembre, indicano una inflazione al 6,8  per cento nel 2023 e al 3,4 nel 2024; quelle della Commissione europea mostrano il 6,1  per cento e il 2,6, rispettivamente. Se errori di previsione sono stati commessi nei mesi recenti, sono stati piuttosto nel senso della sottovalutazione del rischio inflazionistico.

 

Il secondo motivo per cui la critica alle decisioni della Bce è errata riguarda la durata e l’effetto dell’aumento dei prezzi dei beni importati all’origine dell’inflazione. In primo luogo, è da ritenere improbabile che l’aumento dei costi dei prodotti energetici sia temporaneo e che si possa tornare in breve tempo sui livelli precedenti alla crisi. Ciò non è legato solo all’esito del conflitto in Ucraina ma anche alle condizioni di scarsità relativa di alcune materie prime che è destinata a durare. In secondo luogo, il rincaro delle materie prime importate riduce le ragioni di scambio dei paesi importatori, diminuendone il potere d’acquisto. Pertanto, il reddito dei paesi avanzati si contrae. Per usare le parole del governatore della Banca d’Italia nelle Considerazioni finali del 31 maggio scorso, “L’aumento dei prezzi delle materie prime importate è una tassa ineludibile per il paese”. Di fatto, si crea una condizione di eccesso di domanda rispetto alla capacità produttiva del paese. Se la domanda non si allinea alle nuove condizioni determinate dalla riduzione delle ragioni di scambio, l’aumento del prezzo dei prodotti importati si trasmette a tutto il sistema economico, alimentando l’inflazione di tutti i prodotti. 

 

In sintesi, sebbene lo choc esterno produca prevalentemente una contrazione dal lato dell’offerta, esso determina al contempo un eccesso di domanda che alimenta l’inflazione non solo importata ma anche interna. Si tratta dunque anche in questo caso di inflazione da domanda, o da eccesso di domanda rispetto all’offerta che si è contratta. Il tentativo di contrastare tale squilibrio attraverso politiche monetarie o di bilancio non fa altro che accrescere le pressioni inflazionistiche, rendendo più arduo e più costoso il raggiungimento della stabilità dei prezzi. 

Questo fu l’errore commesso in molti paesi avanzati dopo il primo choc petrolifero della metà degli anni Settanta, quando le politiche economiche mirarono principalmente al sostegno dei consumi e della spesa pubblica, piuttosto che a favorire l’aggiustamento del sistema produttivo alle nuove ragioni di scambio. Ciò fece aumentare l’inflazione e richiese successivamente un’ancora più forte contrazione monetaria, con effetti fortemente recessivi per l’economia. In Italia, in particolare, si cercò di eludere la tassa del petrolio, attraverso meccanismi protettivi dei redditi e politiche di bilancio espansive finanziate con la moneta, invece di incentivare il sistema produttivo verso tecnologie più avanzate e meno consumatrici di energia. 

L’esperienza del passato dovrebbe evitare di farci fare gli stessi errori. L’indipendenza della Banca centrale, che non era garantita 50 anni fa, consente oggi di orientare la politica monetaria verso un obiettivo preciso, la stabilità dei prezzi, e di resistere alle pressioni politiche di breve termine. Le politiche di bilancio sono maggiormente vigilate dai mercati finanziari, che le devono finanziare. Quanto alle politiche strutturali, esse dipenderanno dalla capacità dei governi di favorire la transizione verso le tecnologie a maggior valore aggiunto piuttosto che continuare a sussidiare la dipendenza energetica. Chi meglio saprà usarle sarà maggiormente avvantaggiato nella competizione internazionale.

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