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Guerra agli imballaggi

Sì al riutilizzo, stop al riciclo. La svolta dell'Ue sui rifiuti indigna le imprese italiane. Numeri e guai

Fabio Bogo e Roberto Mania

Il nostro paese dovrebbe cambiare il suo sistema di raccolta differenziata per passare al sistema del vuoto a rendere

Da un lato ci sono lattine di alluminio, bottiglie di vetro, contenitori di plastica, tutti vuoti. Dall’altro un bivio: riutilizzo o riciclo? E non è una semplice differenza semantica quella che distingue le due strade. L’Italia usa la seconda. La Commissione di Bruxelles ha scelto la prima. Ma con la proposta di regolamento approvata ieri, l’Italia dovrebbe cambiare il suo sistema di raccolta differenziata, fatta tramite i comuni e i centri di recupero. E passare al sistema del vuoto a rendere. Che in pratica significa: compro la birra e pago in più un importo per la cauzione. Poi comprerò altre birre riconsegnando le lattine e mi verrà scontata la cauzione. Lo stesso per il vetro e la plastica.

  

“Così meno rifiuti e un beneficio per l’ambiente”, sostiene la Commissione, che dichiara guerra agli imballaggi considerandola coerente con il Green Deal del 2019 il cui obiettivo è ridurre drasticamente i rifiuti da riciclare, all’insegna delle filiere corte e a chilometro zero (Farm to fork). L’obiettivo della Commissione è di ridurre i rifiuti da packaging del 15 per cento entro il 2040 rispetto al 2018 in ciascun paese. La tesi italiana è diversa: “Gli imballaggi preservano la freschezza ed evitano gli sprechi: e il sistema italiano porta maggiori benefici economici e ambientali rispetto al riuso: noi recuperiamo 614 milioni di euro in materia prima e evitiamo di immettere nell’ambiente 4,7 milioni di tonnellate di CO2 equivalente”. Da ieri, questa è diventata una sfida diretta tra il sistema Italia e la Commissione. Tanto che ieri, nel corso della conferenza stampa, il vicepresidente dell’esecutivo europeo, Frans Timmermans, ha deciso di parlare in italiano per provare a sfumare lo scontro: “Nessuno vuole mettere fine alle pratiche di riciclo che funzionano bene o mettere in pericolo gli investimenti sottostanti. So che in Italia moltissimo già è stato fatto sul riciclo, vogliamo ancora di più, non di meno, non c’è competizione tra i due approcci”. Però la contesa è proprio tra due concezioni di politica industriale. Il sistema di riutilizzo è un cavallo di battaglia dei paesi nordici. Sono frugali anche nei rifiuti e (questione non secondaria) non sono potenze industriali. Peccato che la loro frugalità può diventare un costo non da poco per l’Italia (e anche per la Spagna che usa lo stesso sistema). “Al paese cambiare e fare il vuoto a rendere costerebbe 3 miliardi di euro”, dice Luca Ruini, presidente di Conai, il consorzio che gestisce e coordina raccolta e riciclo. Il vuoto a rendere va bene per un paese piccolo, per quelli grandi no. Con la flessibilità l’Italia ha recuperato nel 2021 285 mila tonnellate di acciaio, pari a 739 treni Frecciarossa; 16 mila tonnellate di alluminio che equivalgono a 1,5 miliardi di lattine; un milione e 318 mila tonnellate di carta, pari a 528 milioni di risme di fogli formato A4; un milione 796 mila tonnellate di vetro, pari a 5 miliardi di bottiglie di vino”.

   

Serve quindi flessibilità, dice l’Italia. Anche a costo di rivalutare il mantra ambientale che elenca in ordine di minor danno le cinque tappe di un oggetto vicino al fine vita: prima aggiustare, se non ci si riesce riusare, se non funziona riciclare, spazientiti trarne energia e infine (disperati) gettare in discarica. La plastica è il settore che teme i maggiori danni. “Il riciclo è meglio del riutilizzo – sostiene Giorgio Quagliuolo, presidente di Corepla, il consorzio della plastica – perché non solo raggiunge gli obiettivi ambientali, ma crea ricchezza e lavoro. La plastica ha una filiera efficientissima: dalle bottiglie di pet si ricavano coperte di pile, tappetini per le auto e sottofondi insonorizzati, penne, paraurti”. Ma allora c’è del malanimo verso l’Italia, è l’asse del nord contro il ClubMed? “ A pensar male  si fa peccato diceva Andreotti, ma spesso ci si indovina, potrebbe anche essere così”, ironizza Quagliuolo, per cui “è bene che l’Italia sappia imporre le sue ragioni in Europa. In passato non è sempre stato così”. L’unione comunque fa la forza e Conai raduna così a difesa ambientalisti (Legambiente partecipa ai progetti comunali, dice Ruini) e imprese. E anche il nuovo governo sovranista (arrivato a partita appena avviata) che ha già espresso totale contrarietà ai diversi livelli dell’Unione sulla via tracciata dalla Commissione Ue. Sia sul metodo (perché il regolamento anziché una direttiva che lascia agli stati membri la possibilità di adeguare la norma alla propria esperienza?) sia sul merito: “Se un modello nazionale funziona (ed è questo il caso del sistema di gestione degli imballaggi italiano, basato sulla raccolta differenziata integrata) – ha spiegato il ministero della Transizione ecologica guidato da Gilberto Pichetto Fratin – la normativa comunitaria deve supportarlo e non sostituirlo con un altro dall’efficacia incerta”. Nel 2021 l’Italia ha riciclato il 73,3 per cento degli imballaggi, raggiungendo e superando il target europeo del 65 per cento nel 2025, nonostante dal 2014 la quantità di imballaggi destinata a prodotti di consumo sia aumentata dell’11 per cento. Il sistema italiano del riciclo è leader in Europa nel quale si miscelano la crescita economica, la sostenibilità ambientale e la coesione sociale. Non poco. Lo stesso Pnrr destina al riciclo e alle infrastrutture per la raccolta differenziata 2,1 miliardi di euro.

 

Questa contro l’approccio “ideologico” di Bruxelles è diventata una grande battaglia di Confindustria che considera “inaccettabile” la proposta della Commissione e che è riuscita a schierare anche Business Europe (la felpata alleanza tra le confindustrie europee) all’opposizione di “inutili revisioni del diritto comunitario”. Metterebbe a rischio – stima Viale dell’Astronomia – oltre 700 mila aziende, che fatturano ogni anno circa 1.850 miliardi di euro e che occupano 6,3 milioni di lavoratori.

 

La norma – dice Antonio D’Amato, industriale del packaging, ex presidente della Confindustria e fondatore di Eppa (European Paper Packaging Alliance) – potrà avere “effetti devastanti per l’ambiente, per l’economia e per milioni di lavoratori”. D’Amato è convinto che su questa vicenda apparentemente minore si giochi il futuro dell’Europa, del suo profilo industriale, della sua identità democratica. Sostiene D’Amato: “Dietro questo provvedimento c’è, da una parte, una visione molto forte di decrescita felice e quindi di deindustrializzazione dell’Europa e dall’altra parte una spinta dirigista, autoritaria e anti industriale su scelte che non sono affatto di neutralità tecnologica. Una follia assoluta con effetti sulla tenuta stessa del tessuto democratico europeo. Non è difficile capire, se si tolgono i paraocchi dell’ideologia, che il packaging è il modo con il quale oggi si rende possibile l’accesso del prodotto ai mercati. La decrescita non ha niente di felice perché mina la tenuta stessa della coesione sociale oltre che condannare alla arretratezza scientifica e tecnologica il nostro continente. L’assunto ideologico della proposta di regolamento è: aumenta la popolazione mondiale, aumenta il pil pro capite, aumentano i consumi e, per ridurli, bisogna eliminare gli imballaggi. E’ tutto senza senso! La salute del pianeta è una priorità troppo seria per essere affrontata con la demagogia. Occorrono tanta scienza, molta innovazione tecnologica e tanti investimenti che possono essere resi possibili solo da uno sviluppo sostenibile basato sull’economia circolare. E nonostante le evidenze si propongono provvedimenti che aumentano significativamente la produzione di CO2 e lo spreco di acqua che sono le emergenze più gravi nel mondo. Un esempio di stretta attualità. La proposta della Commissione, che vuole vietare l’utilizzo del packaging monouso in tutto il settore dell’horeca, è in totale disprezzo delle evidenze scientifiche. Le analisi certificate del ciclo di vita dei prodotti dimostrano in maniera inequivocabile che gli imballaggi riutilizzabili rispetto al monouso in carta comportano un aumento della CO2 del 176 per cento e un consumo di acqua superiore al 235 per cento. Tutto ciò è in piena contraddizione con gli obiettivi stessi del Green Deal”.

 

Il regolamento – con la chiave di lettura degli industriali  – è destinato a fare danni dovunque: tra i produttori di imballaggi, fra i fornitori delle materie prime, tra tutti gli utilizzatori (dall’agroalimentare alla farmaceutica), tra i costruttori di macchine per gli imballaggi, nella logistica dell’ecommerce, tra i riciclatori degli stessi imballaggi, nella grande distribuzione e, infine, nella ristorazione (ristoranti, bar, catering). La stragrande maggioranza di questi settori è fortemente orientata all’export: il riutilizzo al posto del riciclo taglierebbe i mercati di sbocco. Siamo di fronte al rischio di smantellare l’intera economia circolare perché una volta imboccata la strada del riutilizzo non si tornerà più indietro. Questa non è solo una questione di imballaggi. La palla al Parlamento e poi al Consiglio per provare a ribaltare il risultato.

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