Lo stabilimento Fca di Melfi. Il progetto di “lavoro corto” è partito a giugno in 73 aziende britanniche di quasi tutti i settori (LaPresse) 

Lavorare quattro giorni alla settimana

Roberto Mania

Un lavoro per obiettivi e non per ore lavorate: non quantità ma qualità della prestazione. L’esperimento (in parte riuscito) in Gran Bretagna. Il problema in Italia è la scarsa produttività. Il ruolo della politica e delle parti sociali

Lavorare meno per pagare meno le bollette del gas. L’idea comincia a camminare in alcuni paesi del nord Europa dopo i primi risultati positivi dell’esperimento in Gran Bretagna della settimana di quattro giorni a parità di salario. Qualcosa di assai diverso dal “lavorare meno per lavorare tutti” degli anni Settanta del secolo scorso, dove l’obiettivo primario era quello della piena occupazione, distribuire cioè lo stesso lavoro su più persone. Qui – nel nuovo secolo – siamo di fronte ad un progetto più articolato, nel quale l’elemento economico-sociale pesa almeno quanto quello culturale: meno inquinamento e migliore qualità della vita. Un lavoro per obiettivi e non per ore lavorate, non quantità ma qualità della prestazione di lavoro. Un primo passo in un mondo nel quale, qualsiasi scenario si consideri, l’aggressività dell’automazione nei processi produttivi finirà per ridurre il lavoro disponibile, a modificare profondamente il rapporto tra uomo e macchina e a condizionare la gestione del proprio tempo.

  

Il progetto è partito a giugno in 73 aziende britanniche di quasi tutti i settori (dal commercio alla finanza, al marketing), coinvolti 3.300 dipendenti impegnati a lavorare 32 ore a settimana anziché 40. L’esperimento terminerà il prossimo mese. Risultato parziale: la produttività è accresciuta o è rimasta stabile, le persone hanno apprezzato una diversa organizzazione della propria vita potendosi dedicare ad altro oltreché al lavoro, dalla cura delle persone care, allo sport, agli hobby. Le imprese (quasi il 90 per cento) sono intenzionate a confermare la scelta; i manager sembrerebbero non fare più resistenza a un’organizzazione del lavoro che riduce la presenza delle persone negli uffici e incrina (di fatto) il loro capillare potere di direzione. Chiaro che su questo approccio ha avuto effetto anche l’esperienza (complessivamente positiva) del lavoro a distanza durante i periodi di lockdown che ha intaccato le vecchie certezze sul lavoro svolto in presenza con un basso tasso di flessibilità.

     

Il lavoro agile è servito per combattere la pandemia, il lavoro corto potrebbe essere utile anche per combattere l’inflazione (nel Regno Unito viaggia già a doppia cifra) dal momento che i lavoratori hanno ridotto le spese per le baby sitter come quelle legate ai trasporti. Secondo alcune stime pubblicate dai giornali britannici il risparmio potrebbe arrivare a quasi duemila sterline all’anno nel caso di una famiglia con un bambino con un’età inferiore a due anni e salire fino a 3500 sterline l’anno con più figli a carico. Le aziende hanno limitato i costi fissi, chiudendo un giorno in più alla settimana senza che questo abbia avuto effetti negativi – come detto – sulla produttività. D’altra parte è stato verificato che dopo la cinquantesima ora di lavoro settimanale la produttività finisce per precipitare. Lavorare molto non porta di per sé benefici economici né, tantomeno, li porta sul versante della salute.

    

Secondo i fautori della settima di quattro giorni, il taglio dell’orario determina vantaggi anche dal punto di vista ambientale. “Lavorando quattro giorni a settimana – scrive Giorgio Maran, nel suo “Quattro giorni. Manifesto per la riduzione della settimana lavorativa” – si potrebbero ridurre le code, i pasti usa e getta, il riscaldamento e l’illuminazione di molti luoghi di lavoro”. Se ne discute, oltre che in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Germania (il potente sindacato dei metalmeccanici dell’Ig Metall ha proposto le 32 ore per gli addetti dell’industria dell’auto), in Finlandia (da leader dei socialdemocratici Sanna Marin arrivò a parlare di settimana corta e di sei ore giornaliere), in Nuova Zelanda, in Svezia, in Islanda. E da noi? In Italia si lavora tanto: una media di circa 1.609 ore annue contro, per fare due esempi, le 1.429 della Francia e le 1.336 della Norvegia. E si lavora anche male: il tasso di produttività è fermo da oltre vent’anni per una scarsa propensione (in particolare nel settore dei servizi) agli investimenti, per un modello basato sulle piccole e piccolissime imprese, per uno scarso utilizzo delle innovazioni tecnologiche. Così, per livelli di produttività siamo in fondo alla classifica insieme alla Grecia tra i paesi dell’Ocse. Stesso discorso per il tasso di occupazione.

    

Il M5s si è già appropriato della possibile battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro (qui Beppe Grillo e Giuseppe Conte vanno d’accordo), ritagliandosi un profilo sempre più laburista e sfilando anche questo tema al Pd, tormentato dalle sue divisioni correntizie in vista del prossimo congresso. Ma se mai anche da noi l’argomento diventerà di rilievo non sarà la politica a muovere le pedine. A farlo – se lo vorranno – saranno le parti sociali, come in fondo dimostra la vicenda (tutta elettorale) del “tramontato” salario minimo legale. Nel mondo sindacale la questione è tornata all’ordine del giorno anche grazie alla diffusione tra i dirigenti confederali di un prezioso libretto (“Lavorare meno, vivere meglio”) scritto dal coordinatore della Consulta industriale della Cgil, Fausto Durante. La Cgil ha messo il tema nelle sue tesi congressuali, la Cisl è da sempre il sindacato della riduzione dell’orario di lavoro, la Uil, tradizionalmente “salarialista”, ha aggiornato le sue rivendicazioni tanto che nel recentissimo congresso dei metalmeccanici a Bari è stata rilanciata la richiesta di meno orario a parità di salario.

 

In nessun tavolo, tuttavia, è stata finora posta la questione anche nella chiave di riduzione dei costi per contenere il caro-energia. Il tema aleggia ma non si deposita. La ragione vera di questa assenza è diretta conseguenza della nostra bassa produttività. Ed è tuttavia interessante notare che in Confindustria non ci sia pregiudizialmente una posizione contraria a discutere eventualmente di riduzione d’orario. Non va enfatizzata la recente uscita dell’imprenditore della moda Brunello Cucinelli che ha suggerito di lavorare “massimo” sette ore al giorno, ma è pur tuttavia significativo che l’abbia detto un industriale. Il nodo è la produttività perché se non cresce, riducendo l’orario, aumentano i costi, non solo quelli dell’energia. Il che banalmente non può essere una strada da seguire.

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