editoriali
Cancellare il tetto agli stipendi? Si potrebbe
Ci sarebbero buone ragioni per cambiare paradigma sui manager pubblici
È comune, tra i partiti, la volontà di togliere il tetto agli stipendi dei massimi dirigenti pubblici, compresi i capi di polizia e Forze armate. E’ comune, dopo la scoperta dell’emendamento con cui il tetto a 240 mila euro sarebbe saltato, l’esecrazione di quella scelta da parte di tutti i partiti.
Certamente a fermare tutto è stato Mario Draghi, sostenuto in pieno dal Quirinale. Il momento è palesemente inopportuno e l’inserimento della norma nel cosiddetto decreto Aiuti aveva un suono ironico se non proprio irridente. Detto questo l’intenzione, mal rappresentata, era corretta. Non per dare soldi così, tanto per onorare le alte cariche. Ma per avviare un processo nuovo con cui accedere a quelle posizioni, un rinnovamento dei criteri di selezione (e anche di verifica dell’efficacia del lavoro durante l’incarico) in cui il legittimo ruolo di indicazione da parte del governo e di controllo da parte del Parlamento, come avviene per la grande maggioranza delle nomine, venga rinforzato, rafforzando assieme trasparenza e leggibilità dei criteri di scelta.
A queste condizioni la libertà di ingaggio sarebbe non solo giustificata ma anche raccomandabile. E la trasparenza nelle scelte servirebbe anche a superare le obiezioni arrivate, in questi giorni, da parte di ampie parti della Pubblica amministrazione, perché la distanza tra la retribuzione di dirigenti non di vertice, ma con responsabilità, e i super dirigenti con massime responsabilità, diventerebbe gigantesca e forse sproporzionata. La risposta a queste obiezioni in parte si è già data, parlando di massime responsabilità, ma si può aggiungere che si tratta di incarichi di durata mediamente breve e fortemente esposti al giudizio politico e all’opinione pubblica, cose che non si possono dire per altri dirigenti dello stato. Il corrispettivo maggiore va dato, con mano libera per fissare l’ingaggio, ma in cambio di responsabilità, massimo impegno e accettazione della estrema precarietà dell’incarico.