Foto LaPresse / Pavel Golovkin 

La ritirata di Russia

 La grande fuga dalle steppe russe dei giganti dell'economia

 Stefano Cingolani

Aziende, banche, assicurazioni, big dell’energia. Sanzioni e incertezze dei mercati ridisegnano gli investimenti italiani a Mosca. Ecco chi se ne va e come cambia il suo business

Chiude Hermés, Lvmh abbassa le saracinesche di ben 124 negozi, la Ferrari se ne va dalla Russia, come Coca Cola, Pepsi, Zara, l’elenco s’allunga ogni giorno, ormai è una  fuga, anzi molto di più: il capitalismo occidentale dovrà dimostrare di non essere un ventre molle esposto all’imperio degli autocrati. Per chi produce beni di consumo o ha una sede di rappresentanza il disincaglio è relativamente facile, anche se costoso; tutt’altra storia per chi possiede aziende o partecipazioni azionarie. Si può vendere, ma chi compra, a che prezzo, come paga, in rubli svalutati? E una volta fuori, quando e a quali condizioni si potrà rientrare? Dilemmi senza risposta, nemmeno da parte delle più grandi multinazionali.

 

Tra quel che resta delle mitiche sette sorelle, le più esposte sono Shell, Total e BP. Quest’ultima ha deciso di vendere la quota del 19,75 per cento che possedeva nella Rosneft dell’oligarca Igor Sechin, ex agente del Kgb, per un valore calcolato in 25 miliardi di dollari, il più grande investimento nell’impero putiniano. Il petrolio russo rappresenta circa la metà delle riserve del colosso britannico il cui futuro a questo punto è quanto mai incerto. La Shell ha bloccato i rifornimenti e non rinnoverà i contratti; i profitti russi, pari a 24 milioni di dollari, andranno ai rifugiati ucraini. La Total non farà altri investimenti, ma per il momento non si ritira. Ha attività che ammontano a circa 1,5 miliardi di dollari, ovvero il 5 per cento del suo flusso di cassa complessivo. E’ azionista al 19,4 per cento del capitale del produttore di gas Novatek, detiene una partecipazione al 20 per cento in Yamal Lng, joint venture legata all’impianto di gas naturale liquefatto a Sabetta, nella Russia settentrionale. Meno vulnerabili sono le imprese americane. Gli Stati Uniti, esportatori netti di idrocarburi, dovranno diventare fornitori strategici dell’Europa, come durante la Seconda guerra mondiale?

 

Tedeschi e italiani, che non hanno alternative a breve termine, si oppongono a un embargo del metano, ma la chiavetta potrebbe girarla Vladimir Putin. L’Italia importa dalla Russia il 38,2 per cento del gas che consuma, 29 miliardi di metri cubi su un totale di 72 miliardi. Una “imprudenza”, ha detto Mario Draghi. Miopia strategica e non solo per quel che sta accadendo oggi.

 
Le esportazioni italiane in Russia ammontano a 7 miliardi di euro, non una grande cifra su oltre 516 miliardi di export totale l’anno; le importazioni superano i 12 miliardi su un totale di 465 miliardi. Se ci limitiamo soltanto ai beni materiali la quota dell’export è appena l’1,5 per cento del totale e l’import il 3 per cento. Il 2014 ha rappresentato uno spartiacque, prima le quote rispettive erano il 2,7 e il 5,2 per cento. La Russia accoglie il 2,4 per cento dello stock italiano di capitali investiti nel mondo. Un peso molto più ridotto hanno i capitali moscoviti in Italia: appena lo 0,1 per cento dello stock totale ricevuto dal nostro paese.

 

Quelle russe rappresentano soltanto lo 0,3 per cento delle multinazionali estere sul territorio nazionale e producono poco più dell’1 per cento del fatturato, per un ammontare superiore agli 8 miliardi di euro. Ville, vigneti, palazzi e yacht degli oligarchi fanno senza dubbio più notizia, ma il loro sequestro non ha nessun  vero impatto economico. Diverso è per i turisti, albergatori e bagnini, che già piangono e chiedono ristori al governo.

 

L’ufficio studi della Confindustria calcola che la ritirata di Russia coinvolgerà 11 mila imprese piccole e grandi, un terzo delle quali tra Veneto, Emilia-Romagna e Marche. Nell’immenso paese euroasiatico risiedono 442 aziende con 35 mila dipendenti e un fatturato totale di 7,4 miliardi di euro, soprattutto nell’energia, nell’acciaio, nella chimica, seguono aeronautica, trasporti, alta tecnologia, agricoltura, banche e assicurazioni. Pirelli, per esempio, ha due stabilimenti, uno a Voronezh e l’altro a Kirov che producono il 3 per cento del fatturato totale. Stellantis ha un impianto a Kaluga, portato in dote dal gruppo Peugeot, che produce 125 mila veicolo all’anno. La Fiat ha lasciato Togliattigrad nel 2014, ora la fabbrica delle Zhiguli è in mano a Renault. Ben 60 aziende italiane sono coinvolte in progetti energetici come l’impianto Yamal Lng e l’Artic Lng 2. I produttori di strumenti ad alta tecnologia italiani partecipano al programma “Vostok Oil”, uno dei maggiori progetti petroliferi che dovrebbe essere realizzato nei prossimi anni, per un valore pari a circa 173 miliardi di euro.

  

La maggiore incidenza dei ricavi russi è per Maire Tecnimont (il gruppo dell’ingegneria degli idrocarburi, che ne ricava il 10 per cento del totale). Di lì si scende a Recordati (8 per cento), De’ Longhi, Buzzi, Geox, Pirelli, Campari, Technogym, Unicredit, Moncler, Brunello Cucinelli, Safilo, Ferragamo, Tod’s. Il nerbo delle vendite è composto da macchinari e apparecchiature, che contano per 2,15 miliardi (il 27,9 per cento del totale), davanti ai beni di lusso (17,5 per cento dell’export). Coldiretti e Confagricoltura puntano il dito sul vino e soprattutto sui cereali. Ogni anno 100 milioni di chili di grano che non arriveranno più. Divella ha perso le tracce dei suoi 30 mila quintali di grano tenero per dolci.

  

L’impatto macroeoconomico più pesante è dovuto all’inflazione e alla riduzione fisica di materie prime. Allo stato attuale, per le forniture di metano, anche quelle russe, fino all’autunno non ci saranno problemi per i consumi domestici e industriali, a parte l’aumento dei costi, intanto il governo discute il piano d’emergenza e molti ricordano gli anni 70 segnati dalle due crisi petrolifere: limite ai riscaldamenti, domeniche a piedi, prezzi amministrati, indennizzi per imprese e famiglie, più debito pubblico. Oggi come oggi, però, prevale l’impatto microeconomico, o meglio il ripensamento delle strategie industriali e finanziarie.

 
L’Eni ha deciso di cedere la propria quota nel gasdotto Blue Stream che collega la Russia alla Turchia, controllato alla pari con Gazprom. La joint venture con Rosneft, il colosso petrolifero russo, è rimasta in stand by dopo le sanzioni del 2014. Il prossimo 18 marzo l’amministratore delegato Claudio Descalzi presenterà il nuovo piano quadriennale confermando la transizione energetica: nessun passo indietro, semmai una spinta in più verso la decarbonizzazione.

 

L’Eni, per affrontare l’emergenza, intende accelerare la produzione da giacimenti come quelli dell’Egitto e del Mozambico tra le più grandi scoperte fatte finora. Un ruolo chiave spetta all’Algeria, con cui l’Eni vanta rapporti che risalgono a Enrico Mattei e alla lotta di liberazione dalla Francia: il metanodotto Transmed trasporta il 28 per cento del gas consumato in Italia, e potrebbero arrivare in tempi non lunghi altri 10 miliardi di metri cubi. Oltre che ad Algeri, Descalzi è volato anche in Qatar sempre insieme a Luigi Di Maio. Da qui dovrebbe partire altro gas liquefatto (che copre circa un terzo dei consumi italiani), più dei 7 miliardi attuali, ma sarà importante mettere in moto altri rigassificatori. La palla passa alla Snam che ha le navi e, insieme all’Eni, potrebbe costruire una struttura galleggiante, mentre l’Enel è pronta a riprendere il progetto di Porto Empedocle. C’è poi la partita delle rinnovabili che coinvolge anche Terna: l’aumento possibile di capacità produttiva pari a 60 gigawatt farebbe risparmiare gas fino a 20 miliardi di metri cubi. La ripresa della costruzione di impianti e metanodotti sarebbe una iniezione fondamentale per la Saipem che sta soffrendo una grave crisi industriale.

  
Per l’Enel la questione più complessa è se uscire dalla Russia, dove ha il 56 per cento di una società che un tempo si chiamava OGK-5 e produce elettricità, il resto appartiene ai fondi Pfr Partners (26 per cento) e Prosperity Capital. Sei anni fa era circolata la voce che la holding russa Inter Rao fosse interessata a comprarla, semmai si facesse di nuovo avanti si riproporrebbero gli stessi dilemmi che oggi angosciano BP. Il gruppo elettrico italiano è presente anche con due impianti eolici che fanno capo a Enel Greenpower. Tutte le centrali continuano a funzionare normalmente. L’amministratore delegato Francesco Starace, fratello di Giorgio ambasciatore a Mosca, punta da tempo sulle rinnovabili e ha dichiarato che il gas fa parte già del passato. Per tamponare la crisi sarà costretto a riutilizzare il carbone in alcune centrali, anche in quella di Brindisi, bestia nera degli ambientalisti. Una misura d’emergenza che tutti vorrebbero evitare. Sarà possibile? Molto dipende anche dall’efficacia del piano europeo appena varato. 

 
Dopo l’energia, la finanza. Secondo Credit Suisse, la banca italiana più esposta in termini di prestiti concessi è UniCredit. La sua presenza in Russia vale 14 miliardi; la controllata nel paese si chiama AO UniCredit Bank, è al quattordicesimo posto con 4 mila dipendenti; vale circa il 3 per cento dei ricavi e il 4 per cento del patrimonio netto complessivo del gruppo. Il peso dell’esposizione è dunque limitato, rispetto al totale, ma le Borse hanno penalizzato il titolo sceso da 14 a 10 euro. Intesa Sanpaolo ha in Russia 28 filiali e 976 dipendenti, con attività per circa 1 miliardo di euro e sta valutando che fare; in Ucraina controlla la Pravex, conta 45 filiali e 780 lavoratori e sta cercando di far funzionare quel che è possibile dove è possibile. Intesa finanzia il 50 per cento dei traffici commerciali tra Roma e Mosca, occupandosi anche di energia. Era già sotto osservazione il progetto sul gas artico di Novatek per un ammontare previsto di 500 milioni di euro, insieme alla Cassa depositi e prestiti. Si chiama Artic Lng 2 e mira a creare un impianto per il gas liquefatto in Siberia. Difficilmente andrà avanti. Le Assicurazioni Generali hanno annunciato la chiusura dell’ufficio moscovita e l’uscita dal consiglio di Ingosstrakh, una delle principali società di assicurazione del paese, della quale possiede il 38,5 per cento. Anche Europ Assistance, società francese del gruppo Generali, terminerà la sua attività. Le intenzioni sono buone, realizzarle non sarà facile nemmeno per il Leone di Trieste. La lunga fuga dalle steppe impone un ripensamento di fondo e un nuovo approccio agli investimenti esteri. La catena globale s’è spezzata, cambia il gioco degli scambi e c’è chi ha messo sacchi di sabbia vicino alla finestra, come cantava Lucio Dalla.

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