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Il grande Del Vecchio

Giuseppe De Filippi

Dall’impresa alla finanza. Da Luxottica a Mediobanca e Generali. E ora la formidabile sfida del futuro: diventare il punto d’equilibrio dei nuovi poteri italiani. Il senso della bolla per Leonardo Del Vecchio, che ama fare le cose fino in fondo. Un ritratto e un’inchiesta

Raccontano che volle imparare il dialetto di Agordo per poter parlare direttamente e senza filtri linguistici con i lavoratori della sua azienda. Sembrerebbe un tipico episodio da libretto agiografico, di quelli con i ritratti, o iperbolici o ridicolmente umanizzanti (nel senso fantozziano), dei grandi imprenditori. Ma trattandosi di Leonardo Del Vecchio, protagonista dell’aneddoto, avremmo capito male. Intanto dovrebbe metterci sull’avviso sapere che il racconto non è di seconda mano, ma arriva direttamente dai dipendenti, il primo nucleo di addetti alla produzione di montature per occhiali degli anni iniziali di Luxottica. E va preso, quel racconto, a valore di facciata. Non serve a illuminarci sullo spirito egualitario e su una concessione verso il dialogo da parte di un imprenditore da elogiare perché ricco e potente. Serve a cogliere un aspetto del modo di operare di Del Vecchio che farà da filo conduttore di questo tentativo di capire, partendo dai primi passi, a cosa si sia ispirato nelle sue ultime mosse e quali potrebbero essere le prossime, sulle quali si addensa la curiosità di gran parte del mondo economico e politico italiano. Con la insolita contingenza in cui l’uomo più ritroso della grande scena economica, portato quasi suo malgrado (ma poi, a modo suo, ci ha preso gusto) a contare anche nella finanza, si trova a dover interpretare la parte dell’imprenditore di sistema, come si dice per sfuggire ad altre espressioni che sarebbero equivocate, del punto di riferimento, dell’equilibratore, altra parola appena inventata. Solo che lui non ne ha alcuna intenzione. E allora resta da capire perché il più grande creatore, in proprio e partendo da zero, di ricchezza industriale che l’Italia abbia avuto, lontano però umanamente da tutto e da quasi tutti, si debba impegnare in una costante crescita nel capitale di Mediobanca e delle Generali (per dire solo delle partecipazioni maggiori e più strategiche), insomma si muova come uno che cerca di piazzarsi al centro del potere e della capacità di influenza. Da escludere l’idea del puro guadagno finanziario, di cui non potrebbe importargli di meno. Sembrerebbe da scartare, anche se sono frequenti e insistenti i tentativi di convincerlo, anche la ricerca di un ruolo da grande broker di potere, altra cosa di cui, fuori dai suoi interessi diretti, non gli importa nulla. Anche i progetti, come dire, dinastici, non sembrano stargli particolarmente a cuore, pur avendo sei figli, con tre mogli diverse. Resta un obiettivo più sfumato, ma che, nel racconto di chi lo conosce bene, diventa invece, per Del Vecchio, una specie di regola di condotta cui mai ha derogato nella vita, e cioè il completamento di ciò che si è avviato, e per completamento si deve intendere l’esecuzione di tutti i passaggi successivi a un primo interessamento per un settore, per un’attività. Fare le cose fino in fondo, come si direbbe con linguaggio più corrente. E come hanno dovuto notare e riconoscere, con un certo scorno non esente da nazionalismo, i giornali francesi e ovviamente la comunità imprenditoriale francese, proprio in questi giorni, in cui è diventato chiaro a tutti che nella operazione di alleanza tra pari – con l’intento iniziale di mantenere un equilibrio tra la quota di Del Vecchio e quella dei soci francesi – avviata nel 2018 con la fusione tra Essilor (soprattutto lenti) e Luxottica (soprattutto montature), il concetto di parità era stato superato da tempo. Come ha scritto Les Echos “la presa di controllo degli italiani sul gruppo EssilorLuxottica dimostra che i matrimoni tra eguali nel campo industriale sono semplici operazioni di comunicazione”, e il principale giornale economico francese si è chiesto quando sarebbe sparito definitivamente, a suggello della presa di controllo italiana, il marchio Essilor dalla denominazione nata nel 2018. “Il presidente Leonardo Del Vecchio – constata ancora Les Echos – è riuscito a mettere le mani su tutto il conglomerato mettendo la parte francese alla porta”. Con correttezza il giornale osserva che si tratta comunque di operazioni frequenti e normali nel mondo delle imprese, ma aggiunge poi la solita litania, quella che noi ben conosciamo, sulle aziende e i marchi storici che “vanno via dalla Francia”.

Ma torniamo al racconto citato, perché parlare il dialetto del luogo in cui si vive significa accettare e addirittura cercare una condizione di isolamento, di distacco.

Voler abitare e volersi impegnare a fondo in un ambito ristretto, di cui si conoscono i confini, con un dentro e un fuori. Vivere, come si direbbe ora, in una bolla. Non si tratta tanto, o soltanto, di recepire senza appesantimenti lessicali i consigli di chi ha a che fare con una macchina o con una procedura. Non si abita un luogo ma si abita una lingua, constatava Emil Cioran (forse per esortare al distacco sereno dalle radici geografiche, ma è uguale), e, se uno è meticoloso, abita anche un dialetto. Si tratta di fare una scelta tattica, che consiste nella concentrazione dei propri sforzi su un gruppo definito di problemi e di questioni da superare e ovviamente vedendo opportunità di successo. E in questo modo, un passo per volta, andare a conquistare altri spazi. Lo sviluppo della sua azienda principale, quella cui dedica la sua piena attenzione, ha un andamento straordinariamente coerente con questo modo di operare. Almeno fino a che la scala degli investimenti e il peso nell’imprenditoria italiana non lo hanno quasi costretto a confrontarsi anche con il mondo fuori dalla bolla, per quanto ipertrofica fosse diventata. Ma ci arriveremo.

Adesso torniamo un momento ad Agordo e alle prime mosse per far crescere l’azienda delle montature per occhiali. Anzi, a prima di Agordo. 

Del Vecchio esce a 14 anni dal collegio dei Martinitt, al quale era stato affidato dalla mamma a causa della morte del padre, commerciante di frutta e verdura arrivato a Milano da Trani. Siamo nel 1950 ed è banale dire quanto ci fosse da fare nella città e nell’Italia da ricostruire. I suoi primi maestri e formatori si erano accorti della disposizione ai lavori di precisione, di una certa manualità mostrata già da piccolo, e lo instradarono presso un laboratorio di stampi per medaglie, come apprendista, ragazzo di bottega. Lì si fa ancora più notare per la perizia in quel tipo di lavori e, con intuito che ora, nei nostri anni, fatichiamo a ritrovare nelle esperienze formative, viene mandato dalla stessa azienda a frequentare i corsi serali dell’accademia di Brera. Senza farla tanto lunga, insomma, sulle contaminazioni efficaci tra arte, studio tecnico, preparazione culturale e imprenditoria, si realizzava, in quella Milano dei primi anni Cinquanta, la capacità di andare dritti all’obiettivo importante per far crescere i giovani, dando loro competenze di alto livello ma anche utili per stare nel mondo produttivo. 
Fino ai 23 anni Del Vecchio lavora come incisore, mettendo a frutto l’inclinazione per il disegno, il gusto grafico, la precisione. A quell’età decide di tentare la strada in proprio come artigiano. E’ un momento di passaggio, probabilmente accompagnato e favorito dalla trasformazione che stava avvenendo in Italia. La scelta tra specializzarsi negli stampi per medaglie o nella realizzazione di componenti industriali di precisione assomiglia alla divaricazione tra il passato e lo sviluppo, quello sviluppo che sembrava promesso dalle fabbriche nascenti. Del Vecchio va, logicamente, nella direzione che, appunto, era nell’aria. Riesce subito (ah, quando ora si parla di incentivi all’imprenditoria giovanile) a mettersi in proprio e, quasi casualmente, o meglio fidandosi un po’ dell’intuizione e un po’ delle opportunità che si aprivano in un settore dove il lavoro di precisione era particolarmente apprezzato, si mette a produrre minuteria metallica per occhialeria. E’ un terzista e opera su una piazza, quella milanese, dove quel settore non è forte ma nel quale il lavoro di fornitura di semilavorati è anche abbastanza sguarnito. Le cose vanno bene e come ha osservato il professor Alberto De Toni, già rettore dell’Università di Udine, al quale dobbiamo l’impianto delle prime note biografiche, prese dalla laudatio per il conferimento nel 2002 della laurea honoris causa in Ingegneria gestionale, Del Vecchio allora aveva già percorso con successo il cammino di molti altri artigiani, ai quali arrivarono buoni guadagni e certamente prospettive incoraggianti per la loro attività grazie all’esplosione della crescita economica tra la fine dei Cinquanta e l’inizio dei Sessanta.

Nell’azienda lavoravano già sua moglie, la prima, e suo fratello. Uno dei momenti di svolta arriva proprio in questo momento. Si poteva andare benissimo avanti così, stabilizzando il lavoro come terzista e certamente non sarebbero mancate commesse e prosperità per la piccola azienda e un futuro sicuro per il suo titolare (insomma, ai Martinitt potevano già essere fieri di come avevano instradato quel giovane nella vita). Ma Del Vecchio fa una scelta che potrebbe sorprendere. Decide di andare a produrre direttamente nella zona, ora diremmo il distretto, da cui arrivava gran parte degli ordini e cioè nel bellunese. Qui c’è una certa forza che deriva anche dal grado di libertà alto di chi non ha radici forti (e tante volte anche dannose), perché Del Vecchio è sì milanese di nascita ma non lo è la sua famiglia di origine, sente un legame con la città ma è anche libero di muoversi. Il motivo trainante delle sue scelte non è la ricerca di una bolla, come si è detto prima, legata a un luogo, a rapporti con qualche giro di persone, ma, esagerando un po’, a guidarlo era la sua ossessione per la realizzazione di progetti. La bolla consiste nel concentrarsi integralmente sugli obiettivi. E allora la scelta di lasciare la promettente e dinamica Milano per andare nella Agordo con la quale non c’era neppure paragone in termini di ventaglio di opportunità (piuttosto, a quei tempi, erano veneti e friulani a spostarsi, a cercare la grande città) e che era caratterizzata, nel bene e nel male, da una specie di monoproduzione legata all’occhialeria, dovette sembrare un bel po’ originale. Anche perché, appunto, c’era anche il male, e cioè c’era una concorrenza super agguerrita di terzisti e di fornitori per l’industria dell’occhialeria. Era davvero come andare a sfidare i campioni d’Italia in casa e nel loro sport preferito.

Al suo arrivo in zona, con l’intenzione di avviare una piccola produzione industriale, ci imbattiamo nuovamente in una specie di proto-politica industriale, di fronte alla quale i tentativi attuali sembrano goffi, inefficaci, molto più sofisticati ma incapaci di produrre risultati. L’amministrazione locale aiuta, con la messa a disposizione di spazi di lavoro e capannoni, al resto pensateci voi. E Del Vecchio pensa e sperimenta. E’ già in quegli anni iniziali dell’attività che comincia ad applicare la sua strategia per la crescita, come si dice oggi, verticale, cioè integrando tutte le componenti di un prodotto finale e cercando di controllarne, al massimo grado, i possibili miglioramenti. I suoi concorrenti locali, così, sono già staccati. Lavoravano, in piccole aziende, ciascuno su una parte dell’intero occhiale.

Del Vecchio, che nel 1961 dà vita a Luxottica (con alcuni soci, che verranno poi da lui interamente rilevati otto anni dopo), punta da subito alla produzione dell’intera montatura. Nel 1971 il marchio è per la prima volta con un suo campionario completo alla fiera dell’occhialeria di Milano e, ancora come raccontato nella sua laudatio universitaria udinese, il libro degli ordini si riempie e da quel momento la crescita dell’azienda è costante.

Luxottica funziona così, sempre aumentando l’attività, il perimetro produttivo, la presenza sul mercato, la capacità di raggiungere una maggiore clientela in più paesi. Il concetto di verticalità nella produzione viene applicato anche alla distribuzione e alla commercializzazione. Era già tutto scritto e impostato in quel primo decennio, poi si è trattato, si fa per dire, solo di procedere su quella strada. Gli anni successivi sono segnati da una continua attività di acquisizione di marchi e di capacità produttiva. Chi li avesse avuti, anche sommariamente, a mente, non avrebbe dubitato dell’esito della più recente, e forse conclusiva, grande operazione di accorpamento e di integrazione lungo la prevedibile, segnata, filiera verticale, quella con i francesi di Essilor e le loro lenti da occhialeria. Alla firma dell’accordo tra le due aziende, con la nascita di un gruppo dal doppio nome, si disse che questa volta Del Vecchio aveva cambiato strategia o, più precisamente, che aveva scelto di mettere l’azienda in sicurezza, anche per evitare questioni legate alla successione, ma che ne lasciava la guida operativa e, soprattutto, che cedeva ad altri il compito di fissare i criteri per le mosse future e per la gestione dell’azienda. Veniva rappresentato come il conferimento di una grande storia industriale, sì, ma all’interno di un gruppo in cui i modi di operare sarebbero cambiati e forse anche la testa sarebbe stata in un altro paese. Le cose, come sappiamo, sono andate diversamente, e, oggi, EssilorLuxottica è saldamente guidata da Del Vecchio come presidente e Francesco Milleri come amministratore delegato, ovvero da un manager che potremmo tranquillamente ascrivere al giro stretto di Luxottica, a quella bolla all’interno della quale si sviluppano le mosse del fondatore. Una specie di blob, non si offenda nessuno (è solo un paragone per dare un’idea visiva di quello che è successo), che si allarga per cooptazione, catturando le cose e anche le persone che vuole inserire all’interno della bolla. Eppure, guardando alle operazioni precedenti di acquisizione di altre aziende e marchi, o di iniziane affiancamento e successiva conquista, si poteva, senza farsi impressionare dall’età delle persone coinvolte, immaginare che Del Vecchio si sarebbe mosso come al suo solito.

La storia dell’espansione tramite acquisti è una cavalcata. Non vi impressionate, ma la progressione, e certamente qualcosa sarà sfuggito nell’elenco, lascia senza fiato. L’internazionalizzazione del gruppo comincia nel 1981, con accordi e collaborazioni. Nel 1988 c’è l’intuizione sulle possibilità di produrre non tanto per, non sono più terzisti a Luxottica da molto tempo, ma assieme a grandi griffe. Si comincia con una stretta di mano con Giorgio Armani e poi non ci si ferma più, la lista (saltatela se volete, tanto sono pressoché tutti) contempla, in ordine di apparizione dalle parti di Agordo, Bulgari, Chanel, Prada, Versace, Donna Karam, Burberry, Ralph Lauren, Tiffany, Tory Burch, Coach, Michael Kors e Valentino. Le acquisizioni cominciano nel 1990 con Vogue Eyewear e procedono nel 1995 con Persol e Lenscrafters, quattro anni dopo tocca a Ray-Ban. Nel 2001, mentre si consolida il lavoro di integrazione anche per distribuzione e consulenza ottica nella commercializzazione, c’è l’acquisizione di Sunglass hut. Nel 2007 di Oakley e nello stesso anno due marchi come Oliver People e Paul Smith Spectacles entrano nel portafoglio del gruppo, nel 2013 Alain Mikli e quindi ancora arricchimento sul fronte dei marchi con Starck Eyes. Nel 2014 l’ingresso nella distribuzione online, con Glasses.com. Nel 2016 gli italiani di Salmoiraghi & Viganò, poi, l’anno dopo, i brasiliani di Oticas Carol, nel 2018 i giapponesi di Fukui Megane, nel 2019 ancora Italia con le lenti di Barberini. La lista è piazzata, con orgoglio, sul sito del gruppo. Qui se n’è data una velocissima carrellata per dare, sommariamente ma con chiarezza, idea di cosa voglia dire una strategia verticale applicata in modo tenace. Non ne abbiamo altri esempi in Italia, certamente non in un settore ampiamente concorrenziale e dalla lunga storia (sia Salmoiraghi & Viganò sia Barberini sono in attività dagli anni Trenta, tanto per capirci) come quello dell’occhialeria. E tutto questo è avvenuto senza che, fino ad anni recenti, ci fosse alcuna forma di protagonismo di Del Vecchio fuori dal suo mondo, fuori dalla sua bolla.

In questo schema sembra davvero sorprendente che qualcuno potesse pensare che l’accordo con Essilor, del 2018, sarebbe stato diverso e avrebbe rappresentato una sostanziale capitolazione. Eppure, è quanto in tanti hanno detto o scritto nei giorni dell’accordo, pensando a una specie di sistemazione dell’azienda in un ambito più grande, con un’alleanza che la mettesse al riparo da rischi futuri, in cambio, però, della perdita di autonomia. Sembrava, a molti, la giusta idea con cui il grande timoniere della Luxottica poteva uscire di scena in modo non traumatico e senza dover avviare complesse operazioni di riorganizzazione delle quote equamente divise tra i sei figli, scegliendone uno o una cui affidare la guida futura. Insomma, come si diceva, molti avevano visto in quell’alleanza più una soluzione a problemi interni che un vero progetto industriale. Invece era tutto l’opposto. E non c’è dubbio, vedendo col senno di poi, che l’intenzione di fare il colpaccio sull’intero super gruppo nato dalla fusione fosse invece presente sin dall’inizio nella testa dell’imprenditore italiano. E con la nomina ad amministratore delegato di Milleri si è avuto il completamento dell’operazione. Ma, attenzione, mai, avendo a che fare con Del Vecchio, si deve pensare che un completamento corrisponda a un punto di equilibrio, alla raggiunta quiete. Non è mai successo, e, visto che il nostro è sempre stato coerente nelle sue scelte (agisce sempre come ha agito prima, non agisce mai come non ha agito prima), probabilmente non succederà. Allora, certamente Milleri è investito della piena fiducia di Del Vecchio e, così, gli permette di ricreare quel concetto di bolla cui abbiamo accennato prima: mentre l’azienda cresce il nucleo dei fidati diventa perfino più piccolo e più stabile. Ma è anche vero che Del Vecchio, dopo aver avuto la presidenza esecutiva, mantiene comunque la presidenza del gruppo, oltre al controllo azionario. Insomma, ha pieno potere sul mantenimento degli incarichi di maggiore peso, e, in passato, lo ha sempre usato, anche sorprendendo chi (una specie di vizio) lo dava per stanco e prossimo a uscire dai giochi importanti.

Anche quando Del Vecchio si è trovato a dover affrontare questioni che, inevitabilmente, sarebbero state all’attenzione di tutti, lo ha fatto parlando ai suoi, parlando alla bolla perché, una volta tanto, anche il mondo esterno sapesse. Ed è successo proprio in occasione dell’uscita dall’azienda, dopo anni di intenso lavoro e di quella che apparentemente era una perfetta intesa, di Andrea Guerra. Quello che, evidentemente, fu uno scontro di personalità e di visioni, tanto repentino quanto tenuto nascosto fino allo scoppio finale, venne raccontato da Del Vecchio in due lettere ai dipendenti, poi diffuse all’esterno. In quel duro commiato, condito poi con un’intervista in cui puntualizzava gli aspetti più polemici della sua decisione, il re dell’occhialeria semplicemente riprendeva, senza usare però l’accento di Scampia, ciò che era suo. E lanciava una specie di rifondazione delvecchista. Si rivolgeva ai 6 mila dipendenti solo nel bellunese, ma l’azienda ne aveva 74 mila. Contestava i “tanti, troppi, pettegolezzi letti sui giornali in questi giorni sulla mia famiglia e i miei collaboratori”, assicurava a tutti continuità nel suo impegno in azienda, secondo un modello “che tutti gli altri ci invidiano e imitano”, se la prendeva con una intera serie di governi, dicendo che “mentre in Italia si svendevano interi pezzi della nostra economia, Luxottica conquistava nel mondo marchi e aziende prestigiose, e mentre molti cercavano aiuti di stato o appoggi dalla politica noi ci rimboccavamo le maniche e, con le sole nostre forze, ci facevamo valere nel mondo”. E poi i colpi finali. Uno per rivendicare indipendenza decisionale anche rispetto ai suoi familiari. “Vi vorrei rassicurare – scrive – sul fatto che in questo processo di cambiamento non ci sono state e non ci saranno mai influenze da parte della mia famiglia, numerosa e articolata, ma che proprio per questo amo tutta intensamente e allo stesso modo e ringrazio per l’affetto e il sostegno che ogni giorno mi sta dimostrando”. E ancora per dire cosa intendeva fare, in quel 2014, mentre metteva un manager alla porta e ne faceva entrare altri due (entrambi, nel frattempo, liquidati e usciti di scena). “Sono temporaneamente tornato in azienda – è la formula usata – esclusivamente per accompagnare e agevolare i cambiamenti in atto. Appena terminato e consolidato il nuovo assetto organizzativo, lascerò di nuovo ai manager il compito di guidare il futuro di Luxottica”.

Sappiamo, appunto, che questa è una descrizione molto al ribasso di ciò che è successo dopo. Mentre crescevano le sue partecipazioni in Mediobanca e Generali e si affacciava la possibilità di entrare nell’immobiliare, ancora una volta sull’asse Italia-Francia e ancora una volta riuscendo a conquistare una posizione di preminenza. La linea costante è quella dell’impegno nelle cose che si conoscono, senza più mollare la presa. Vale anche per le esperienze negative. Ha avuto un tumore e dopo, guarito, è diventato uno dei maggiori investitori/sostenitori della ricerca sanitaria avanzata. Ora tutti attendono che faccia notizia nel (piccolo) mondo finanziario italiano, immaginando una specie di Enrico Cuccia redivivo e che si metta a dirigere le grandi operazioni. L’indicazione che arriva è che, invece, non farà nulla che non abbia a che fare con suoi interessi diretti. Quindi tenete d’occhio Unicredit, dove ha favorito l’arrivo di Andrea Orcel, mentre sulla questione del MontePaschi, dal quale voleva che si stesse lontani, è stato accontentato. Dopo l’estate appuntamento con le Generali (in questi mesi ci sarà qualche altra mossa, cioè qualche altro passettino per rafforzare la sua presenza nel capitale della società di assicurazioni), mentre la sua società cassaforte, la Delfin, ha già l’autorizzazione della Bce a salire al 19,9 per cento del capitale di Mediobanca e non sembra sprecare alcuna occasione per farlo. In tanti lo cercano, lui mai buon salottiero, per fargli dare una mano a puntellare la proprietà del Corriere della Sera, quello che fu il cuore delle partecipazioni imperdibili prima per il salotto buono, poi per gli amici di Mediobanca e per gli altri gruppi bancari interessati alle vaste operazioni sul paese. Ma, per dire, ai tempi di Cuccia Mediobanca ordinava di fare certe operazioni. Tutta roba che non c’è più e, comunque, in ciò che è rimasto Del Vecchio è uno che gli ordini potrebbe darli e non riceverli, e non vuole fare né l’una né l’altra cosa. Le pressioni continueranno, e magari lo prenderanno, come si dice, per sfinimento. Intanto è stato molto anche fisicamente lontano da queste contese. Il tempo della pandemia lo ha passato, si dice, in isole remote e sicure (e anche paesaggisticamente soddisfacenti). Lì aveva comunque portato la sua amata piccola nave, in cui passa moltissimo tempo. Pre pandemia e, si immagina, anche post pandemia, la tiene a Montecarlo, e quello è il luogo in cui trascorre gran parte dei suoi giorni. La barca, anche se proporzionata alla sua ricchezza, è la perfetta continuazione della sua idea/ossessione di luogo chiuso, di spazio controllato e abitato solo da chi è con lui, con i suoi progetti e le sue missioni. Barca non vuol dire avventura e scoperta nel suo caso, ma guscio, rifugio. Forse, da lì, è più facile dire di no alle richieste, anche cortesi, di impegnarsi in attività editoriali che non sono proprio nelle sue corde. Mentre, se farà notizia, nei prossimi mesi, sarà più per operazioni da realizzare ancora più lontano dalla Milano del potere, locale, finanziario, e dei grandi giornali.

Con la fine della pandemia deve riprendere due grandi iniziative. La Covivio, di cui è socio di riferimento, aveva comprato a ridosso dell’inizio della crisi sanitaria otto alberghi di lusso in Europa e concluso altri grandi investimenti. Con ripresa e riaperture ora bisogna farli trottare. E, soprattutto, ci sono attese sulla ripresa del dossier per trattare con un super gigante di Silicon Valley e varare, da padroni della situazione, la nuova fase dell’occhialeria integrata con i sistemi digitali di comunicazione e di comprensione dei dati. Sarebbe affascinante un lavoro affiancato con Apple, tra l’azienda del già incisore di monete partito da solo e solo con l’educazione alla vita e le competenze tecniche apprese al collegio dei Martinitt, e l’azienda del giù studioso di calligrafia, un po’ viziato, fuggito da una grande università per provare a innovare a modo suo.

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