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Perché il settore delle telecomunicazioni se la passa male?

Andrea Trapani

Ricavi in calo, burocrazia che ritarda la realizzazione degli impianti, tariffe più basse d'Europa. E ora che il calcio sarà su Dazn che succederà?

Demolire un mito è un’impresa improba. In letteratura grandi scrittori hanno provato a farlo, gli esempi non mancano. In campo economico è altrettanto difficile. Prendiamo il settore delle telecomunicazioni. Quando si parla di telefonia e gestori si pensa a un mercato tanto competitivo quanto ricco e fiorente. Competitivo lo è sicuramente, basti vedere i quattro operatori di rete presenti nella telefonia mobile italiana, ma ormai non è più così remunerativo. Quel settore che, per anni, è diventato famoso per essere la “gallina dalle uova d’oro” non c’è più se non nelle analisi sommarie di un mercato che meriterebbe avere (nuovamente) più attenzioni.

 

La pandemia non c’entra o meglio, almeno per una volta, non è stata l’acceleratore di un processo che va avanti da anni. Basti ricordare che già il 2019 era stato un anno particolarmente difficile per i conti economici degli operatori di tutta Europa. In Italia si è registrato un segno negativo nei ricavi lordi pari a -4,5 per cento, a causa delle dinamiche competitive del mercato mobile che ha segnato un calo tra i peggiori della serie storica e di una contrazione anche dei ricavi da rete fissa, dopo due anni di crescita. Tali dinamiche dipendono fortemente – come fotografa l’ultimo rapporto di Asstel, l’associazione di categoria che, nel sistema di Confindustria, rappresenta la filiera delle telecomunicazioni - da un calo dei prezzi sui servizi. In dieci anni, infatti, tutta la filiera ha perso circa 12 miliardi di euro, quasi un terzo del valore iniziale. Eppure, vista da fuori, la situazione sembrerebbe rosea. Come detto in Italia ci sono quattro gestori di rete: dopo la nascita, per fusione, di WindTre è arrivata Iliad. Il gruppo francese, complici le condizioni per permettere la nascita proprio di WindTre come operatore unico, è diventato uno dei protagonisti del nostro paese puntando, come in Francia, proprio sul prezzo. Essere competitivi dal lato dell’offerta, rischia però di non essere una strategia sostenibile a lungo termine per gli operatori stessi che potrebbero vedere diminuire l’interesse degli investitori, soprattutto stranieri, nel portare capitali in un settore che non rende adeguatamente rispetto alle spese. Questo paradosso non è così casuale.

  

Prima del Covid, nel 2019,  infatti, la voce principale degli investimenti restava quella in infrastrutture, cresciuta dell’8 per cento, secondo i dati Asstel, per un totale di più di 500 milioni di euro. Un valore assoluto pari al 25 per cento dei ricavi, il più alto degli ultimi 12 anni. Se da un lato tali investimenti sono quelli che stanno consentendo l’incremento di copertura di banda ultralarga sul territorio – sostenendo l’occupazione per gli altri attori della filiera – dall’altro tolgono fiato ai ricavi. Anche perché per raggiungere i risultati desiderati servirà molta liquidità. Gli ingenti investimenti hanno aiutato sì l’Italia a migliorare la sua connettività e il suo ritardo rispetto ad altri paesi europei, ma resta ancora un gap per quanto riguarda l’ultrabroadband, che si somma ad altri ritardi, ancora più significativi, in tema di capitale umano e competenze digitali. Sarà da verificare come la pandemia potrà influenzare questo quadro nel prossimo futuro. Andando a comparare il nostro paese con gli altri paesi dell’UE l'Italia si posiziona al 17º posto tra gli stati membri dell'UE. Rispetto al 2018, si può sorridere visto la diffusione complessiva della banda larga fissa è aumentata di un punto percentuale come la banda larga fissa (quella ad almeno 100 Mbps, ndr) è passata dal 9 per cento nel 2018 al 13 nel 2019. Tutti i dati sulla diffusione della banda larga domestica però sono inferiori alla corrispondente media UE.

 

Così torniamo al paradosso degli investimenti da fare per stare dietro ai consumi. Il fulcro del problema è da cercare nei conti economici: secondo l’Osservatorio sulle comunicazioni AgCom, nei primi nove mesi del 2020, il settore delle telecomunicazioni in Italia ha registrato una flessione dei ricavi che in media è stata pari al 5,3 per cento ed è risultata relativamente più intensa per la rete mobile (-6,2) rispetto a quella fissa (-4,5).  Se  i prezzi dei servizi, in Italia, sono calati in media del 6,7 per cento , tra il 2018 e il 2019, nello stesso periodo, nel Regno Unito, sono aumentati in media del 4,3 per cento. La media UE invece è quasi stabile -0,4 per cento.

 

Il trend è ancora più significativo se andiamo indietro nel tempo, guardando i dati di 5 e 10 anni fa. Dal 2015, infatti, la variazione dei prezzi dei servizi TLC, in Italia è del -18,4 per cento contro il +10,6 dei britannici e una media UE pari a -6,3. Non c’è solo AgCom a certificare che i prezzi italiani per i servizi telefonici siano molto bassi. Numerosi studi internazionali, focalizzati soprattutto sul costo dei servizi, riportano dati da primi della classe. La società inglese Cable, ad esempio, confrontando la spesa per 1 Gigabyte in 228 nazioni, ha classificato l’Italia al quarto posto per le tariffe più economiche in tutto il mondo - dietro solo a India, Israele e Kyrgyzstan - con un prezzo medio di 0,43 dollari a Giga. Tra gli altri paesi più simili a no, invece la Francia è 30° con 0,81 dollari, il Regno Unito 59° con 1,39, mentre la Germania è addirittura 140° con 4,06.

 

Se la guerra dei prezzi rischia di non dare abbastanza ossigeno ai gestori, la burocrazia di certo non aiuta. Anzi. In Italia la realizzazione di un impianto di rete radiomobile o di un’infrastruttura a banda ultralarga è soggetta ad un iter autorizzativo piuttosto lungo e complesso. Per la realizzazione di progetto di infrastruttura TLC di rete radiomobile possono occorrere più di 7 permessi da enti diversi, tra autorizzazioni paesaggistiche, sismiche, monumentali o per la presenza di vincoli archeologici. La tempistica va da un minimo di tre mesi sino a raggiungere i 210 giorni, mentre, ad esempio, per la realizzazione di progetto di infrastruttura TLC in un comune in aree rurali, occorrono mediamente 6 permessi da enti diversi, con una tempistica che può raggiungere i 250 giorni. Senza scomodare i movimenti No5G che hanno fatto proseliti anche tra gli enti territoriali, si pensi ai sindaci che hanno emanato numerose ordinanze per fermare gli impianti, i limiti di esposizione e il confronto con il resto del mondo è impietoso per l’Italia. La normativa italiana, nel tempo, ha introdotto - senza particolari giustificazioni di carattere scientifico – l’assunto che esista per la popolazione il rischio di malattie connesse all’esposizione prolungata anche ai bassi livelli dei campi elettromagnetici. Sulla base di tale assunto, accanto ai valori limite vengono fissati "livelli di attenzione" e "obiettivi di qualità" che non trovano riscontro scientifico e normativo in ambito internazionale e inducono la popolazione a ritenere che tali effetti esistano, costringono le Agenzie regionali a mobilitare i propri tecnici in infiniti e costosi controlli e obbligano gli operatori nazionali a costosi quanto inutili interventi sugli impianti. In considerazione della ingente mole di informazioni scientifiche raccolte sulle problematiche in oggetto, il "principio di precauzione" invocato a sostegno degli atti normativi adottati e in itinere non è in realtà applicabile. La stessa OMS dichiara espressamente che "i requisiti per l'applicazione del principio di precauzione, come sono stati precisati dalla Commissione Europea, non sembrano sussistere né nel caso dei campi elettromagnetici a frequenza industriale (50 Hz) né in quello dei campi a radiofrequenza". Risultato? Il confronto tra i limiti per le frequenze tipiche della telefonia cellulare fissati dalle diverse normative nazionali e internazionali mostra come l’Italia abbia adottato valori limite da 2 a 100 volte inferiori a quelli raccomandati dall'ICNIRP, adottati dall'Unione Europea e ratificati da altri 14 paesi europei, a loro volta inferiori a quelli inglesi o statunitensi. Insomma, un settore strategico su cui si punta molto per lo sviluppo digitale è in affanno. Una crisi che potrebbe avere conseguenze tanto sulla competitività delle offerte quanto sulla qualità di quelle infrastrutture che sono diventate indispensabili. Specie oggi dopo che DAZN ha appena cambiato il panorama di tutta la rete italiana portando, per la prima volta, tutta la Serie A sulla propria piattaforma. Servirà (tanta) banda ultralarga mobile e fissa per rispondere alla sfida.

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