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LE PROSPETTIVE

Il capitale alimentare

Un settore industriale in grado di affrontare le crisi. Ma lo choc Covid-19 pesa molto sull’export

 

Quando è scoppiata la pandemia, l’industria alimentare italiana veniva da un triennio particolarmente dinamico, grazie soprattutto all’espansione sui mercati esteri che ha trainato la domanda e neanche la guerra dei dazi scatenata dal presidente americano Donald Trump, che pure mirava a colpire alcuni comparti del made in Italy come liquori e aperitivi, formaggi e carni preparate, era riuscita a frenare il progresso. Una vitalità che si è rivelata fondamentale quando il settore ha dovuto affrontare la sfida al Covid-19 confermando la sua capacità di adattamento alle crisi economico-finanziarie e adesso anche sanitarie. Basta un dato: nei primi sette mesi del 2020, a fronte di un calo della produzione industriale del 18 per cento, il settore alimentare si è contratto del 2,8 per cento. Secondo l’Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare, che ha realizzato con Federalimentare un rapporto in cui sono stati analizzati dati macro e microeconomici, si può parlare certamente di “resilienza” di una filiera produttiva che, con un mercato di 219,5 miliardi di euro, rappresenta il 13,5 per cento del pil nazionale.

 

I dati di bilancio analizzati di 6.400 imprese, che rappresentano un fatturato di circa 95 miliardi di euro, dimostrano, infatti, una decisa capacità di reazione di questo settore nonostante il contraccolpo subìto sulle quote di export, oltre che sul canale domestico di alberghi e ristoranti. Come infatti emerge dal rapporto Ismea, il recupero è già in parte cominciato: le vendite all’estero, dopo il calo di aprile (-1,5 per cento) e il tonfo di maggio (-10,2 per cento) sono tornate a crescere a giugno con un incremento del 3 per cento su base tendenziale, e la ripresa è proseguita anche a luglio e agosto. Considerando anche la performance particolarmente brillante dei primi due mesi del 2020, il consuntivo dell’export registrato nei primi otto mesi di quest’anno tocca 29,4 miliardi di euro con una crescita del 3 per cento su base annua. Risultato che dimostra le doti anticicliche dell’industria alimentare che nel suo insieme fa meglio dell’economia nazionale, grazie soprattutto alle imprese molitorie, ai produttori di cioccolato, caffè e tè, ma che tuttavia ha un “ventre molle” particolarmente evidente in segmenti come birra e olio. L’impatto della crisi sanitaria si è sentito, comunque, anche qui ma non in modo uniforme perché ha colpito in modo “chirurgico” singoli comparti o porzioni di comparti. Molto è dipeso dalla dimensione delle imprese: dalle analisi dei dati risulta che le realtà più grandi – tra 50 e 250 dipendenti – hanno una maggiore capacità di tenuta anche in situazioni di crisi shock come quella a cui stiamo assistendo, mentre quelle molto piccole – con meno di nove dipendenti – risultano essere più vulnerabili. Inoltre, c’è un segnale incoraggiante relativo al fatto che a livello territoriale non si osservano grandi differenze nella stima del grado di resistenza alla crisi. Anzi, va sottolineato che nel Mezzogiorno l’area delle imprese più robuste è addirittura più ampia, sia pure di poco, rispetto al centro-nord.

 

Quali sono a questo punto le prospettive del settore, considerando il perdurare della crisi pandemica? Secondo le stime elaborate dall’Ismea, sul fronte interno, la crisi Covid-19 impatterà attraverso un calo dei consumi extra-domestici di circa il 39 per cento, per un ammontare che si aggira intorno a 34 miliardi di euro (dato che non tiene conto di altri fattori di incertezza legati alla recessione economica che potrebbero influenzare la domanda delle famiglie, né degli effetti dei provvedimenti di sostegno adottati dal governo). D’altra parte, la crescita dei consumi alimentari domestici delle famiglie nel 2020 può compensare, sia pure solo in parte, la riduzione dei consumi fuori casa limitando, quindi, l’impatto negativo complessivo sui consumi di prodotti alimentari e agricoli a 24 miliardi di euro. Eppure, negli ultimi anni la crescita del settore era stata trainata proprio dai maggiori consumi extra-domestici, oltre che dall’export, ma le nuove dinamiche sociali e lavorative imposte dalle restrizioni sanitarie, con un massiccio utilizzo dello smart working, hanno praticamente ribaltato questa tendenza. In conclusione, si potrebbe dire che il risultato complessivo sarà differenziato per i diversi prodotti e le diverse componenti delle filiere che compongono l’industria agroalimentare che, comunque, rappresenta uno dei settori più capaci di affrontare le incertezze future. Resta il rammarico per lo shock subito dai flussi di esportazioni a seguito della pandemia che ha drasticamente ridimensionato le grandi prospettive di crescita della presenza italiana sui mercati mondiali, interrompendo il salto di qualità che si stava delineando.

 

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