La visione che serve all'Italia

Carlo Bonomi

La sfida europea, le lezioni della pandemia, il metodo Draghi, l’agenda per il governo e un modello per una collaborazione virtuosa fra stato e mercato. Buone idee da un Bonomi 2.0

Pubblichiamo un estratto della relazione tenuta ieri dal presidente di Confindustria Carlo Bonomi nel corso dell’Assemblea annuale di Confindustria.

 


La prima lezione del passato da evitare è che, nelle fasi di grave perdita di reddito e lavoro, non debbano essere le ambiguità della politica economica ad aggiungere ulteriore incertezza e sfiducia nel paese. Nessun provvedimento di politica economica, nessuna misura istituzionale, nessun capitolo di spesa, generano effetti positivi, rilevanti e durevoli senza che la strategia in cui si inscrivono venga compresa e validata dagli operatori economici. Non basteranno risorse ingenti, né disposizioni di legge, se questo passaggio logico non sarà compreso e condiviso in tutte le sue implicazioni. Lo stiamo già sperimentando: senza una prospettiva credibile di sviluppo, il reddito, anche emergenziale, non si trasforma in spesa ma viene trattenuto sotto forma di liquidità; la disoccupazione aumenta nonostante le norme eccezionali introdotte; gli investimenti vengono rimandati. Se l’incertezza economica connessa con la pandemia si salda con aspettative poco convincenti sul corso della politica economica, gli attori rimandano le decisioni ed il meccanismo della prosperità rischia di incepparsi. Ripeto oggi, signor presidente del Consiglio, quanto ho detto due mesi fa all’inizio del mio intervento agli Stati generali: il compito che vi spetta è immane, nessuno può e deve sottovalutarne le difficoltà. A maggior ragione in un’Italia reduce da venticinque anni di bassa crescita e bassissima produttività. Ma proprio per questo serve definire un quadro netto e chiaro di poche decisive priorità su cui riorientare la crescita del paese e servono strumenti e fini per indirizzare la politica economica e industriale dell’Italia. Serve una rotta precisa per dare significato complessivo alle misure, e per tracciare la rotta serve un approdo sicuro.

 

Sono i dati, il punto da cui partire per capire che cosa fare. Nei primi due trimestri il crollo del pil è stato del -17,6 per cento. La stima di perdita a fine 2020 resta in una forbice tra -9 per cento e -11 per cento. La produzione industriale a luglio ha recuperato il 7,4 per cento: ciò potrebbe condurci ad un rimbalzo rilevante nel 3° trimestre, di oltre il 20 per cento rispetto al punto più basso toccato nel lockdown, ma su livelli ancora inferiori di circa il 7 per cento rispetto a quelli pre Covid. Gli ordini interni dei produttori di beni di consumo e di investimento confermano un moderato recupero nel 3° trimestre. L’export di beni ha continuato a recuperare a luglio (+5,9 per cento su giugno, a prezzi costanti), ma rispetto ai livelli pre Covid restiamo a -9,1 per cento. I primi segnali dai mercati extra-Ue in agosto non sono positivi. La ripresa ha caratteri molto eterogenei nei diversi settori e mercati: dinamica migliore per farmaceutici e alimentari, forte caduta nel tessile e abbigliamento, timidi segnali di ripresa dai mezzi di trasporto da livelli eccezionalmente bassi, sono solo alcuni esempi. In ripresa le vendite in Germania, Cina e Giappone, mentre restano negativi gli andamenti negli Stati Uniti, Spagna, Turchia e medio oriente. Le prospettive internazionali restano incerte. Tra lo stallo in vista delle prossime presidenziali americane e i rischi evidenti di risalita del Covid in numerosi paesi avanzati, si sono indeboliti in agosto gli ordini esteri delle piccole e medie imprese del manifatturiero. Nonostante un parziale rimbalzo a luglio, in Italia il calo tendenziale dell’occupazione rimane molto ampio, con quasi 600 mila persone occupate in meno rispetto all’anno precedente. Al calo degli occupati si associa un altro fenomeno che misura la sfiducia degli italiani sulle prospettive, ovvero un forte aumento degli inattivi (+475 mila su luglio 2019). Secondo le stime del nostro Centro Studi, anche la prima metà del 2021 sarà difficile per l’occupazione. Ad essere maggiormente colpiti, come d’altronde in precedenti episodi di crisi, sono i giovani: del calo totale dell’occupazione, il 74 per cento pesa sugli under 35. Sono in prevalenza giovani anche i nuovi inattivi (64 per cento), che vanno ad aggiungersi all’esercito di chi in Italia non studia e non cerca più un lavoro. Sulla base di questi dati, l’ottimismo di un recupero entro 2 anni del livello pre Covid sembrerebbe in larga misura fuori luogo a meno di un forte impulso degli investimenti. Eppure, anche altri dati dovrebbero essere considerati fondamentali. Dati che testimoniano la forza delle nostre imprese. Guardiamo per esempio alle 2.120 società italiane censite da Mediobanca, che rappresentano il 47 per cento del fatturato industriale e il 48 per cento di quello manifatturiero, tutte le aziende italiane superiori a 500 dipendenti e il 23 per cento di quelle medie tra 50 e 499 dipendenti. Questi dati confermano che, nella drammatica caduta di pil e reddito, l’industria e la manifattura pesano meno della discesa apportata da servizi, consumi e domanda interna. Rispetto al 2009 le imprese industriali italiane sono entrate nella crisi Covid con maggior patrimonio, meno debiti finanziari, e una quota di export nazionale del 26 per cento superiore a quella del 2009.  Le imprese private avevano aumentato il proprio fatturato del 14,6 per cento sul 2010, la manifattura del 20,7 per cento, l’industria del 12,2 per cento. E tra di esse le medie imprese del 30,7 per cento e le medio grandi del 25,6 per cento. In paragone, il fatturato delle imprese pubbliche rispetto al 2010 aveva registrato un -0,1 per cento. I debiti finanziari delle imprese private erano scesi al 68,7 per cento del capitale netto, rispetto al 108,5 per cento di quelle pubbliche. Sono dati che alimentano la fiducia che, a fine anno, per industria e manifattura il colpo complessivo potrebbe essere anche significativamente inferiore a quello subito nel 2009. Lo voglio sottolineare con un certo orgoglio. […]

 

Mi sono chiesto innumerevoli volte come potesse giustificarsi, la scelta di accantonare Industria 4.0. E non sto qui a elencare le nostre dettagliate proposte per riprendere, rilanciare e rendere strutturale negli anni a venire l’intero complesso di incentivi di Industria 4.0 e dei crediti fiscali per la ricerca, sviluppo e innovazione. Tutte le proposte sono declinate in puntuale dettaglio – con tanto di aliquote indicate per ogni tipo di incentivo – nel nostro volume “Italia 2030-2050” che consegneremo a fine Assemblea, e in cui troverete un esame molto analitico delle misure che proponiamo per l’economia italiana. La Banca d’Italia ci ha ammonito che in un quinquennio dovremmo raddoppiare la quota storica di investimento annuo. Il totale degli investimenti pubblici e privati italiani del 2019 è stato di 40,5 miliardi. Se li raddoppiassimo, secondo via Nazionale, ne deriverebbe una crescita aggiuntiva di 3 punti di pil. Utile, ma che non basta a invertire una tendenza negativa che dura da troppo tempo. Era evidente a tutti che la “ripresina” italiana 2015-2017 era trainata dalle imprese industriali e manifatturiere, e dal loro export. E che questa componente era stata incoraggiata ulteriormente a tornare ad alti tassi d’investimento da Industria 4.0. Eppure, il suo accantonamento non ha prodotto alcun vero dibattito nel paese. E il motivo vero viene persino prima di quanto questo o quel partito considerasse importanti le imprese. Il motivo è molto più profondo nella società italiana, è culturale. Da troppi anni in Italia manca una visione. Una visione di fondo capace di unire ciò che il nostro paese sa fare con l’impatto della modernità, l’evoluzione formidabile delle tecnologie, gli effetti che tutto ciò può produrre in una società italiana che, in 25 anni, ha perso reddito e ha aumentato il tasso di diseguaglianza. Ed è la mancanza di questa visione, a spiegare l’annegarsi della politica in mille misure ad hoc, il proliferare della normativa, l’astrusità delle procedure amministrative, la dilatazione dei tempi giudiziari, la perdita di punti in ogni ranking internazionale, si tratti del Pisa (Programme for International Student Assessment) sulle competenze scolastiche o di quello Desi (Digital Economy and Society Index) sul digitale. L’ho capito meglio tutte le volte che mi è capitato nei confronti pubblici di ripetere la frase “serve una visione”. […] 

 

Quando affermiamo “ora ci vuole una visione”, non stiamo affatto dicendo “la politica deve fare come noi”. Il governo ora dovrà stabilire priorità per usare, in pochi anni, oltre 200 miliardi che ci vengono dall’Europa; si trova di fronte proprio a una scelta di visione, prima che di misure concrete. Una visione di fondo che deve scrutare in profondità i mali italiani, ma guardare lontano. Perché neanche 200 miliardi possono risolverli dandone una goccia a tutti. Mentre bisogna concentrarli investendo sui maggiori nodi irrisolti, quelli la cui soluzione può sprigionare in tempi brevi il maggior apporto di crescita del pil potenziale, più imprese e più lavoro. Una visione in cui certo lo stato è chiamato a svolgere un ruolo importante: un ruolo da regolatore per incentivare lo sviluppo di mercati più estesi basati su maggior offerta e concorrenza, non su statalizzazioni esplicite o velate. Che non ci piacciono e non per ideologia, ma perché nella storia italiana lo abbiamo visto che cosa significa avere acciaio e panettoni di stato. Esattamente come abbiamo visto il danno del protezionismo contro prodotti, imprese e capitali esteri. O le storture gravi prodotte quando lo stato regolatore fallisce i suoi obiettivi, e trasforma i suoi concessionari in titolari di rendite. Il gap digitale italiano non dipende dal fatto che la rete debba tornare a essere pubblica, ma da quale buona architettura regolatoria pubblica garantisca la concorrenza e il giusto rendimento per attirare gli investimenti necessari. Una visione di fondo deve nascere dalla consapevolezza di come funzionano e vanno potenziate sia le matrici di crescente interdipendenza internazionale – che per un paese trasformatore come l’Italia restano prioritarie – sia quelle della crescente fertilizzazione incrociata tra settori diversi, frutto della digitalizzazione e dei tempi corti delle scorte dovuti alle trasformazioni della domanda, sia domestica sia estera. Una visione che metta al centro di tutto i giovani e le donne, cioè ancora una volta, come avviene da troppi anni, le vere vittime della crisi italiana. Per questa ragione abbiamo voluto dedicare il film di questa Assemblea ai giovani e alle donne, a cui spettano scelte coraggiose per il futuro. Istruzione e formazione dei giovani – come il governatore Ignazio Visco ci ricorda da anni – sono la sfida prioritaria. L’Italia deve smettere di concentrare sui giovani le più aspre diseguaglianze di reddito, lavoro, prospettive sociali. E per i giovani avere una visione che guarda al futuro significa non più occuparsi dei banchi, con o senza rotelle, o solo di nuovi centomila dipendenti da immettere in ruolo, ma pensare a una riforma seria dei profili formativi della scuola secondaria superiore e dell’università. Riforme che non guardino solo a chi nella scuola lavora, ma finalmente a chi la frequenta. E significa, all’esaurirsi di Quota 100 tra un anno, non immaginare nuovi schemi previdenziali basati su meri ritocchi, come leggiamo quando si parla di Quota 101. Cioè nuovi regimi che continuerebbero a gravare sulle spalle dei più giovani. Giovani e donne pagano oggi un prezzo elevatissimo per via della crisi pandemica, in un paese dove la natalità è già ai minimi e le proiezioni demografiche sono di un calo di 4.6 milioni della popolazione in età attiva già nel prossimo decennio. Occorre un welfare che collochi la natalità al centro delle priorità. Ed occorre un progetto per l’occupazione di giovani e donne al cuore delle riforme fiscali, previdenziali e formative, come proponiamo nel nostro volume. […]

 

Il governo ha provato a risolvere alcuni nodi sui tempi biblici per realizzare infrastrutture, con il decreto semplificazioni. Ma lì siamo nel campo di misure specifiche, sul codice dei contratti e degli appalti. Una visione di fondo è una cosa diversa. Significa affrontare il problema della bassa produttività della Pubblica Amministrazione. La media nazionale della produttività è abbassata dalla performance molto negativa nei servizi non di mercato – la P. a., appunto – e in vaste aree dei servizi di mercato sottoposti a regime di concessione pubblica, tariffa pubblica, e settori del procurement di beni e servizi all’impresa comunque sottratti a meccanismi di gara aperta e trasparente. Avere una visione di fondo significa rendere l’innalzamento della produttività un benchmark esplicito indicato, anno per anno, nella programmazione di finanza pubblica per tutti i settori della Pubblica Amministrazione. Da almeno venticinque anni l’Italia cresce troppo poco, e si sta pericolosamente allontanando dai principali partner europei in termini di dinamica della produttività, dell’occupazione, del reddito pro-capite. Non possiamo attendere oltre per invertire questa deriva, e l’occasione della ripresa, dopo l’irruzione della pandemia, non può essere sprecata. Significa modificare in profondità gli obiettivi pluriennali di performance oggi posti nella Pubblica Amministrazione centrale e periferica. E’ impensabile, ad esempio, accettare che l’obiettivo dei processi civili per i prossimi anni sia quello già raggiunto due anni fa, o che in alcuni comparti gli obiettivi di produttività siano indicati dal numero di riunioni svolte o dalla carta movimentata. Significa, inoltre, adottare scrupolosamente quel che l’ordinamento dice ma resta oggi lettera morta, a proposito di analisi d’impatto della legislazione e regolamentazione pubblica. In Italia continuano ad essere assunte misure per centinaia di miliardi di euro senza offrire altro che scarne relazioni tecniche allegate dai governi e non svolte da organi tecnici indipendenti, regolarmente smentite dai fatti successivi. Spesso si assume consapevolezza dell’impatto reale delle misure solo dopo la loro approvazione, com’è avvenuto nel caso della “Plastic tax” e della “Sugar tax”, e in moltissime altre misure economiche. E significa, inoltre, considerare la produttività come finalità del procurement pubblico. Negli Stati Uniti, gli acquisti pubblici rappresentano uno dei canali prioritari per balzi tecnologici in molti settori trainanti, non solo nella difesa e sicurezza perché gli standard tecnologici sono sempre stati concepiti come “dual use”. La produttività cresce se le forniture pubbliche avvengono con regole trasparenti, se la concorrenza è garantita, e se il meccanismo di prezzo non è quello dell’accoglimento dell’offerta minima, che disintermedia le imprese fornitrici sane e agevola quelle infiltrate dalla criminalità. In Italia abbiamo fatto passi indietro sulla concorrenza delle gare pubbliche, stiamo tornando a un uso massiccio dell’affidamento diretto, ancora non sappiamo i termini con cui sono avvenuti gli affidamenti per 2,4 milioni di nuovi banchi alle scuole. […]

 

A proposito di visione faccio un ultimo esempio. Che riguarda il fisco. Non conosciamo il dettaglio degli interventi a cui il Governo sta lavorando. Abbiamo letto di misure allo studio che riguardano l’Irpef, un taglio delle detrazioni, e un intervento cosiddetto sul “cuneo fiscale” che però non allevierebbe la quota a carico delle imprese. Infine, un ulteriore intervento dovrebbe essere il passaggio per quasi 5 milioni di autonomi alla tassazione mensile per cassa, presentato come una “grande semplificazione”. Ecco, avere una visione significa prendere in parola tale annunciata capacità dell’amministrazione finanziaria, e tradurla in una potente leva per molti anni a venire: è quello che chiediamo da tempo. Perché passare alla tassazione diretta mensile solo per i 5 milioni di autonomi? Facciamo lo stesso per tutti i lavoratori dipendenti, sollevando le imprese dall’onere ingrato di continuare a svolgere la funzione di sostituti d’imposta addetti alla raccolta del gettito erariale, e di essere esposti alle connesse responsabilità. Sarebbe una bella prova che lo stato metta tutti sullo stesso piano senza più alimentare pregiudizi divisivi a seconda della diversa percezione del reddito. 

 

Le direttrici per la Commissione Ue sulle quali si devono incentrare i progetti per l’utilizzo del Recovery fund sono ben chiare: sostenibilità ambientale, sostenibilità sociale, innovazione tecnologica e produttiva, riforme di struttura a forti effetti sul pil potenziale, come previdenza e giustizia oltre che sistema della formazione. […] L’uso del Recovery fund deve esprimere una visione di fondo della crescita dell’Italia. La società italiana vi si deve riconoscere. Altrimenti, dopo tante promesse per centinaia di miliardi, le misure saranno foriere di contrasti, di difficile attuazione e facilmente reversibili. La nuova produttività deve considerare contestualmente le politiche di innovazione, la formazione e l’advance knowledge, la regolazione per promuovere l’efficienza dei mercati, le infrastrutture abilitanti sia fisiche (ovvero Ict, logistica ed energia), sia istituzionali (P. a., competenze e organizzazione sinergica) e interventi strutturali per la coesione sociale. E’ su questo concetto ampio di produttività che si devono concentrare le azioni e le politiche dei prossimi anni, con l’obiettivo di massimizzare il ruolo di motore dello sviluppo del sistema delle imprese e del lavoro, e dare una nuova centralità alla manifattura. Questo è il fulcro del patto che chiediamo di scrivere. Con noi e con tutte le parti sociali. E’ questo il senso del Patto per l’Italia che chiediamo alle istituzioni, alla politica, a tutti i maggiori soggetti economici e sociali del nostro paese. Un grande e comune Patto per l’Italia.

 

Nei mesi del lockdown, il Governo ha assunto misure di sostegno alla liquidità delle imprese e di rifinanziamento al fondo Pmi. Ma i sussidi non sono per sempre, né possiamo o vogliamo diventare un Sussidistan, come è stato recentemente scritto. Già l’estate doveva essere il momento di altre scelte. Scelte su cui indirizzare più incisivamente il futuro. E il futuro non può che essere letto in una chiave di filiere, possibilmente europee, come peraltro suggerisce la nuova strategia dell’Ue. Si tratta di filiere i cui fornitori disegnano una geografia molto più ampia delle singole imprese di settore. Su queste filiere dell’industria italiana occorre uno sforzo particolare. Ma, voglio essere chiaro, non sono i sussidi, né ulteriore indebitamento sia pur con garanzia pubblica. Serve tutt’altro. L’esempio è quanto avvenuto nell’emergenza sanitaria. La struttura produttiva italiana non era pronta a maxi produzioni di dispositivi sanitari di protezione, mascherine, e reagenti. Ma lo stato ha creato condizioni di incentivo tali da rendere possibile un balzo di quelle produzioni, perché giustamente considerate strategiche. Per le filiere che rischiano perdite a doppia cifra, gli strumenti dovrebbero essere analoghi. Non sussidi ma condizioni regolatorie e di mercato tali da tornare ad accrescere produzione e occupazione. Vale per l’edilizia e l’immobiliare come per l’auto e i trasporti. E il problema della logistica non si risolve da solo con l’Alta Velocità ferroviaria, è una somma di nodi concatenati da sciogliere, viari e ferroviari, tra porti e interporti, sui maggiori assi domestici e transfrontalieri usati dalle merci italiane e straniere. C’è poi un’altra essenziale priorità, per aderire all’impostazione europea. Sui conti pubblici serve un’operazione verità. Primo. Nell’entusiasmo per i 208 miliardi che ci vengono dall’Europa, e che si aggiungono al Sure e alle nuove linee di credito Bei, tende a svanire l’attenzione sul danno certo per il paese se il governo rinuncia al Mes sanitario privo di condizionalità. Secondo. Non vorremmo trovarci un domani a constatare che l’onere della parte di Recovery fund percepita in trasferimenti sia finanziato con nuove tasse solo a carico delle imprese, specie di quelle che producono e danno occupazione in Europa: “Plastic tax”, “Carbon tax”, “Web tax” o quel che si voglia. Terzo. Non si scorge ancora una prospettiva solida di interventi che diano sostenibilità al maxi debito pubblico italiano, il giorno in cui la Bce dovesse terminare i suoi interventi straordinari sui mercati grazie ai quali oggi molti si illudono che il debito non sia più un problema. […]

 

Fatemi evocare un campione che è un modello di caparbia capacità umana, che affronta senza scoramento e vince sfide impossibili, e che oggi sta combattendo una battaglia che spero vinca ancora una volta: Alex Zanardi. A chi gli ha chiesto da dove venisse tanta forza, ha risposto: “La vita è come il caffè: puoi metterci tutto lo zucchero che vuoi, ma se lo vuoi far diventare dolce devi aver voglia e forza di girare il cucchiaino. A stare fermi non succede niente”. Ecco, all’Italia di oggi serve un po’ di quello spirito di Alex. Dobbiamo girarlo con forza, quel cucchiaino. Tutti insieme. E una volta per tutte, basta dire che gli imprenditori chiedono cose irreali e irrealizzabili. Era la stessa accusa rivolta a Henry Ford, il pioniere della motorizzazione industriale di massa. Che rispondeva sorridendo: “Impossibile? Ricordatevi che gli aerei decollano ogni giorno controvento, non col vento in coda”. Ecco, questo è lo spirito che serve. Scelte per l’Italia del futuro. Scelte anche controvento. Il coraggio del futuro

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