La professoressa Mariana Mazzucato (foto commons.wikimedia.org)

La socializzazione dell'economia è una boiata pazzesca. Lezioni di mercato alla prof Mazzucato

Franco Debenedetti

Serve aumentare la concorrenza, facilitare la traduzione di idee in imprese, ridurre, se non le imposte che paga chi crea ricchezza, almeno il costo di chi la “socializza” e delle sciocchezze che fa

“Quando l’economia è in crisi, a chi chiediamo aiuto? Non alle aziende, ma allo Stato. Ma quando l’economia va bene, ignoriamo i governi e lasciamo che le aziende si prendano i benefici”. Colpisce, in questa prima frase del nuovo articolo di Mariana Mazzucato pubblicato sul New York Times il 1°Luglio, che dopo il punto va a capo. Mentre avrebbe dovuto mettere due punti: e concludere “e ricomincino a pagare le tasse”.

  

Lo Stato è il monopolio territoriale della violenza legittima, per proteggere i cittadini da nemici esterni e da criminali interni. Inoltre allo Stato chiediamo di organizzare e fornire servizi universali, sanità, istruzione, welfare. Per questo gli diamo circa il 50 per cento della ricchezza che produciamo, e, pagandole, contribuiamo a rendere sostenibile l’immane debito che i governi hanno contratto. “In quest’ottica solo le imprese creano valore”, scrive la Professoressa: potrà non piacerle, ma è esattamente così che funziona, produrre profitti è responsabilità delle imprese, e pagare le relative tasse. Per lei è motivo di scandalo, per le imprese causa della sensazione di restare in credito.

  

Cita gli aiuti che la Federal Reserve erogò alle banche durante la crisi del 2008 per evitare il melt down. Li diede la FED, e i cittadini non ebbero dubbi che quei soldi erogati dalla banca centrale fossero soldi loro. E non sono solo loro: se ha dei dubbi, la professoressa provi a chiedere ai cittadini dei “paesi frugali” di chi pensano siano i soldi con cui la BCE compera il debito italiano per tener bassi i tassi: o quelli che l’Unione Europea si appresta a prendere a prestito dal mercato.

   

L’assicurazione contro eventi estremi - calamità: alluvioni, terremoti, epidemie - è verosimilmente la ragione per cui lo Stato esiste: dai tempo di Hobbes tendiamo a pensare che sia così. Anche per la buona ragione che non è che lo Stato si passa chiamare totalmente fuori da calamità e crisi. Se ci sono alluvioni, c’è il dissesto idrogeologico a cui non si è posto rimedio; ci sono i terremoti ma anche case costruite senza ottemperare alle norme o sui declivi dei vulcani. Quanto al Codid-19, su tante morti indaga la magistratura, e potrebbe (dovrebbe) anche farlo sul razionamento dei tamponi. E quanto alla crisi dei subprime, le cause furono in parte dovute a politiche governative per la casa a tutti, in parte a norme inadeguate: altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di emanare la legge Sarbanes Oxley.

 

Mazzucato continua a ripetere la storia di Internet e del GSM: ma cos’è il, pur grande, valore di questi strumenti restituiti alla società a fronte di quanto sono costate alle imprese le guerre, fredde e calde, pagate dai contribuenti? E poi, il “valore” era li fermo o lo hanno creato Google e Uber con la loro pulsione di fare profitti battendo la concorrenza sul tempo?

 

Ma torniamo al Covid-19: qui non stiamo affatto socializzando le perdite. Qui stiamo evitando che si determinino fallimenti (con le conseguenze sociali che ne deriverebbero) in conseguenza di una scelta, giustificata finché si vuole, ma collettiva, di imporre a cittadini e imprese il lockdown. Per motivi indipendenti dalla loro volontà, interi comparti sono a rischio. 

   

Sulle condizionalità sugli aiuti dati alle imprese, per essere sicuri che essi vadano solo a evitare licenziamenti e a finanziare investimenti, nessuno obbietta nulla. Ma c’è chi vorrebbe sfruttare l'occasione per ridefinire - direttamente o indirettamente - gli assetti proprietari: e questo è tutt’altra cosa. Se è questo che pensa, lo dica. E sappia che questo desta allarmi e induce rifiuti  nel Paese che si è dovuto indebitare per pagare i guasti lasciati dallo “Stato imprenditore” .

   

Con la Professoressa (e ahimè non solo con lei) sempre lì andiamo a cadere. Se lo Stato (oggi) possiede aziende che fanno profitti, ciò non toglie che queste siano sempre un’anomalia. Per la loro stessa presenza riducono la concorrenza; per il fatto di essere pubbliche devono adottare pratiche che mirano ad altro che il massimo dei profitti: quando va bene, alla spartizione dei posti. 

  

“Dovremmo socializzare i successi”, scrive la Professoressa: è quello che fanno le imprese pagando le tasse,. Il problema è aumentare i successi: e questo vuol dire aumentare la concorrenza, facilitare la traduzione di idee in imprese, ridurre, se non le imposte che paga chi crea ricchezza, almeno il costo di chi la “socializza” e delle sciocchezze che fa.

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