(foto LaPresse)

Crescita per competere

Daniele Vaccarino

Non esiste una vera fase tre senza spazzare via dal dibattito pubblico le falsità sulle piccole imprese

La storia ci insegna che le pandemie sono eventi che non esprimono orientamenti e tendenze. Ma il Covid-19 è il primo virus che produrrà profondi cambiamenti nel tessuto economico e sociale dell’intero pianeta e modificherà una serie di riferimenti culturali. Il primo elemento di discontinuità è il ritorno dello stato interventista. Le crisi economiche e finanziarie degli ultimi 30 anni non hanno mai generato una maggiore fiducia nei confronti dell’intervento pubblico. Nemmeno nella depressione del 2008 i cittadini hanno guardato allo stato come risposta alla diffidenza nei confronti del mercato. L’emergenza sanitaria ed economica provocata dal Coronavirus ha ridato centralità agli stati nazionali. E’ come la Grande crisi del 1929, dalla quale prese forma il welfare state. La differenza rispetto a un secolo fa è che oggi la variabile tempo rappresenta un elemento cruciale nell’efficacia della risposta pubblica. In quest’ottica l’emergenza ha evidenziato alcune delle criticità storiche del sistema Italia. La più evidente è la ingiustificabile lentezza della trasmissione degli interventi di sostegno a famiglie, lavoratori e imprese con il grave rischio di vanificare i rilevanti stanziamenti economici. In una parola, questa crisi ha amplificato gli effetti negativi di norme complesse e burocrazia pesante e miope. Una patologia che ha l’emblema nella Pubblica amministrazione ma in realtà è un fenomeno ben più esteso. Domandiamo alle nostre imprese che lavorano per i grandi gruppi a proposito di burocrazia e risponderanno terrorizzate. I ritardi nelle risposte alle moratorie e le procedure complesse da parte delle banche per l’erogazione dei prestiti con garanzia pubblica rappresentano una cultura non più compatibile con i ritmi delle società moderne.

 

Gli effetti del Covid-19 devono rappresentare la grande occasione storica per il nostro paese di uscire da uno stallo pericoloso che impedisce all’economia di progredire da due decenni. Il passato recente dimostra che la bulimia riformatrice senza una visione di lungo periodo non genera risultati. Anzi alimenta stratificazioni normative e appesantisce l’architettura istituzionale come ben dimostra il rapporto complicato tra stato centrale e regioni.

 

Da alcune parti si afferma che il virus segna la fine della globalizzazione. Una lettura esagerata e probabilmente semplicistica. Sicuramente assisteremo a un ridisegno delle catene del valore. La Cina è diventata la fabbrica del mondo in quanto produce un terzo dei beni intermedi a livello globale. Cambiare le catene di approvvigionamento è complicato ma sarà necessario. In Europa alcuni Paesi hanno iniziato a definire linee di intervento per riportare nel Vecchio continente produzioni strategiche come la farmaceutica. Tra i progetti targati Ue figurano gli Ipcei (Important projects of common european interest) con l’obiettivo, ad esempio, di rendere l’Europa autonoma nella produzione di batterie elettriche per auto e più robusta nel segmento dell’intelligenza artificiale.

 

In uno scenario non così lontano è necessario che l’Italia ripensi una fase di re-industrializzazione investendo risorse ed energie nelle “produzioni di prossimità” assolutamente strategiche come automotive, siderurgia e biomedicale e valorizzando il ruolo delle piccole imprese attraverso l’accorciamento delle catene di valore. Investendo nei giovani e nelle imprese al femminile.

 

Si tratta di una sfida che richiede anche un ripensamento in termini di sostenibilità, una accelerazione verso l’economia circolare. In questo senso apprezziamo la misura per Ecobonus e Sismabonus sia per rilanciare un settore da tempo in difficoltà e sia per il suo valore in termini ambientali. La crisi provocata dalla pandemia ha evidenziato il ruolo spesso insostituibile degli artigiani e del sistema delle piccole imprese nel campo della produzione, del made in Italy e come presidio di interi settori economici quali il turismo, i servizi alla persona e la stessa mobilità.

 

Questo mondo è allenato ad affrontare sfide e cambiamenti ed è pronto a volgere lo sguardo al futuro abbandonando schemi antichi e difficilmente riproponibili. Occorre rimuovere alcuni luoghi comuni e slogan che non hanno evidenze nella realtà. Il male italico non è la presenza eccessiva di piccole imprese, piuttosto è il numero esiguo di grandi gruppi. Le Pmi rappresentano il 60-70 per cento dell’occupazione dei paesi Ocse e sono vitali per scongiurare il collasso dell’economia per mano del virus. Tra i vecchi schemi da lasciare al passato c’è la contrapposizione tra grande e piccola impresa e quello che ogni tanto riemerge di conflitto tra capitale e lavoro.

 

Nei giorni scorsi l’Ocse ha sollecitato i governi a supportare il potenziale di crescita delle piccole imprese anche dopo la crisi con politiche e investimenti strutturali. Proponiamo di incoraggiare i grandi gruppi a collaborare con le piccole imprese per integrarle nelle catene di approvvigionamento. Questo nostro mondo economico può e deve diventare una prospettiva per i giovani e le nuove imprese. Come ha evidenziato il governatore della Banca d’Italia serve una “rottura rispetto all’esperienza storica più recente”. Il richiamo all’unità morale del presidente della Repubblica deve rappresentare la pietra angolare sulla quale la politica e i corpi intermedi, nel rispetto dei ruoli, disegnano un nuovo orizzonte dell’Italia. 

 

Daniele Vaccarino è presidente della CNA

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