Così la Lega ha tradito i pensionati del Nord. Parola del consigliere di Salvini

Per Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, “anziché premiare il senso del dovere la Manovra trasferisce risorse da lavoro a assistenza e verso il sud. Con un costo spaventoso per la collettività”

“È una manovra che investe su coloro che soldi non ne hanno: pensionati, giovani disoccupati. Se a Bruxelles mi dicono che non lo posso fare me ne frego e lo faccio lo stesso”. Non è chiaro se il Matteo Salvini che lo scorso 29 settembre annunciava così la sua battaglia con l'Europa in difesa della manovra del popolo, sia lo stesso che ieri, mentre il premier Giuseppe Conte comunicava ufficialmente all'aula del Senato la resa del governo gialloverde ai tecnocrati di Bruxelles, se ne stava comodamente seduto in un salottino del Viminale chiacchierando amabilmente di vino con Al Bano. Insomma ancora non è chiaro se l'incendiario sia diventato improvvisamente diventato pompiere.

  

 

Di certo c'è che per il suo consigliere economico, Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, la Legge di Bilancio non solo non investe sui pensionati, ma addirittura li penalizza, creando una vera e propria guerra che verrà pagata dagli italiani. Tutti.

 

In numeri, dopotutto, non mentono. In Italia, spiega il Centro Studi, nel 2018, sono in pagamento circa 23 milioni di prestazioni pensionistiche di cui beneficiano circa 16 milioni di pensionati. Sul totale delle prestazioni in pagamento poco più di 8 milioni (il 35 per cento) sono pari a 1 volta il minimo (circa 508 euro al mese per 13 mensilità): di queste,  quasi 6 milioni (il 75 per cento) sono totalmente (circa 2 milioni) o parzialmente (4 milioni) assistite e finanziate dallo Stato attraverso la fiscalità generale. Tra 2 e 3 volte il minimo ci sono altre 10,65 milioni di pensioni (il 46 per cento); da 3 a 4 volte il minimo ce ne sono altre 2 milioni. In totale, insomma, ci sono 20,62 milioni su 23 milioni totali (90 per cento).

 

“Per avere una pensione al minimo – osserva Brambilla – bastano 15 anni di versamenti contributivi su un normale stipendio contrattuale. Significa quindi che in 66 anni di vita questo 75 per cento di pensionati non ha versato nemmeno questi contributi e non ha quindi pagato un euro di tasse; pochi contributi e imposte anche per quelli fino a 2 volte il minimo. Si tratta di un numero di pensioni molto alto se si pensa che nella media dei Paesi Ocse il tasso fisiologico di soggetti 'sfortunati' per motivi psicofisici o dipendenti da eventi particolari non supera il 10/12 per cento degli aventi diritto”.

 

Ebbene il maxiemendamento alla Legge di Bilancio per il 2019, propone una modifica al meccanismo di indicizzazione delle pensioni, che prevede la rivalutazione completa solo per i trattamenti fino a 3 volte il minimo. “I percettori di queste prestazioni – osserva Brambilla – fanno parte del 44,92 per cento di italiani che in totale pagano solo il 2,8 per cento dell’Irpef totale (cioè nulla). Sulle pensioni frutto di contributi realmente versati, i più fortunati sono quelli che prendono tra 4 e 5 volte il minimo la cui pensione verrà rivaluta non per scaglioni (come avviene per la progressività fiscale) ma sull’intero importo, solo al 77 per cento dell’inflazione. Molto peggio va per il restante 1,18 milioni di pensioni che vedranno la loro pensione rivaluta per l’intero importo al 52 per cento tra 5 e 6 volte il minimo, al 47 per cento tra 6 e 8 volte, al 45 per cento tra 8 e 9 volte e al 40 per cento oltre le 9 volte”.

Ma proprio questi questi pensionati, sottolinea il consigliere economico di Salvini, “rientrano nel 'club' del 4,36 per cento di contribuenti che versano il 36,52 per cento di tutta l’Irpef; aggiungendo anche i pensionati tra 4 e 5 volte il minimo, la cui rivalutazione è pari al 77 per cento dell’inflazione, si arriva al 12,09 per cento di contribuenti che però versano il 57,11 per cento di tutta l’Irpef. Supponendo un’inflazione media dell’1,1 per cento e un periodo di fruizione della pensione di 20 anni, la riduzione dell’indicizzazione 2019 al 50 per cento è pari a una decurtazione del potere d’acquisto di 0,5 per cento l’anno che, capitalizzata, porta la riduzione a fine periodo a oltre il 12 per cento. A questa perdita si assommano quelle del biennio successivo”.

 

La “guerra” però, secondo il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, non riguarda solo le rivalutazioni. C'è l'intervento sulle cosiddette “pensioni d'oro”: un taglio lineare, per la durata di 5 anni, per quanti percepiscono assegni superiori a 100.000 euro lordi l’anno (circa 51mila euro netti l’anno, pari a circa 3.930 euro al mese).

 

“L’operazione – insiste Brambilla – è stata presentata come una riduzione della parte di pensione non coperta da contributi ma, in realtà, come evidenziato dall’Approfondimento a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali sul ricalcolo delle pensioni oltre i 4.500 euro netti al mese, è un taglio senza alcuna logica. Infatti, le pensioni maggiormente avvantaggiate dal metodo retributivo, come dimostrato anche da uno studio di Stefano Patriarca, sono quelle intermedie fino a 3.500 euro. Stiamo cioè parlando di pensionati che fanno parte di quel 4,36 per cento di contribuenti che mantengono il 46 per cento della restante popolazione”.

 

C'è poi un elemento territoriale che Brambilla sottolinea con una certa enfasi. Secondo le stime citata del Centro Studi, oltre il 60 per cento delle prestazioni assistenziali che godono della rivalutazione totale e potrebbero addirittura beneficiare dell’incremento relativo alle cosiddette “pensioni di cittadinanza”, sono pagate al Sud, mentre circa il 70 per cento delle pensioni tagliate e poco indicizzate stanno al Nord. “Il grosso rischio della 'guerra delle pensioni' e delle pensioni di cittadinanza – conclude – è quello di aumentare le pensioni basse e assistenziali, i cui maggiori beneficiari sono spesso 'furbi', elusori ed evasori, persone che sfruttano il lavoro nero e foraggiano l’economia illegale. Anziché premiare il senso del dovere, dello Stato e il merito, assistiamo a un trasferimento forzoso di risorse da lavoro a assistenza e da Nord a Sud: un ottimo risultato per la Lega (ex Nord). Con un costo per la collettività e lo sviluppo del Paese, spaventoso”.

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