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Perché gli investitori sono diventati tolleranti all'incertezza politica

Alberto Brambilla

I mercati hanno risposto in maniera relativamente pacata al risultato elettorale del 4 marzo: nessun timore per “raid” in Borsa. Il caso Elliott-Vivendi e la difesa fortuita degli interessi di bandiera

Roma. I mercati hanno risposto in maniera relativamente pacata al risultato elettorale del 4 marzo, considerato il peggiore possibile alla vigilia del voto, ovvero l’ascesa degli euroscettici Lega e Movimento 5 stelle. La Borsa ha ceduto qualche punto per poi recuperare. Lady Spread non ha fatto un plissé. Gli investitori sono diventati tolleranti all’incertezza politica perché il contesto di una crescita europea più sostenuta è favorevole. Il risultato elettorale sarà ininfluente nel breve periodo in quanto è lecito pensare che non ci saranno cambiamenti di sorta nell’arco di mesi e probabilmente una coalizione inabile, o la chiamata a nuove elezioni, prolungheranno la vita di un governo non incisivo fino al 2019. In un contesto di relativa calma, con la garanzia della protezione da picchi di panico finanziario della Banca centrale europea, è improbabile ipotizzare un attacco alla “corporate Italia” in Borsa e fuori.

 

Dopo la sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi – con relative dimissioni – ci fu grande bagarre per un possibile assalto estero con una possibile spinta della francese Axa alle Assicurazioni Generali, cui Intesa Sanpaolo avrebbe avuto intenzione di rispondere in difesa della solita “italianità” (magari in tandem con i tedeschi di Allianz). All’epoca la debolezza dell’esecutivo renziano determinò i timori della politica e della finanza, ma il temuto assedio non si verificò.

 

Dobbiamo temere un assalto anche oggi? “Non ci sarà nessuna aggressione: le società italiane sono da tempo appetibili e senza grandi difese”, dice un trader che taglia corto, riferendo però un pensiero comune nelle sale operative. Se guardiamo fuori dalla Borsa, la crescita della produzione industriale nel quarto trimestre 2017, secondo Unioncamere, in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, unita alla crescita degli ordinativi, convince che per gli imprenditori questo è il momento di guadagnare e non di vendere. Sul versante finanziario lo stallo politico è irrilevante. Basti dire che è in presenza di governi autosufficienti, e relativamente forti in Parlamento, che si sono concretizzate operazioni estere di prima forza. Si pensi, ad esempio, all’aumento di capitale da 13 miliardi di euro di Unicredit che, guidata dall’ex di Société générale, Jean Pierre Mustier, ha modificato la compagine azionaria trasformando la seconda banca italiana in una public company senza presidi “tricolore”. Unicredit è poi primo azionista di Mediobanca, che ha per secondo socio Vincent Bolloré. Mediobanca a sua volta è primo socio delle Generali guidate dal francese Philippe Donnet, un ex di Axa.

 

Non c’è dunque bisogno dell’incertezza politica affinché i “gioielli della corona” vengano presi di mira, in questo caso mire francesi. Anzi l’instabilità politica può essere un disincentivo ad attivare operazioni di lungo respiro perché contribuisce ad aumentare il rischio paese e quindi rende meno appetibile un investimento in società con un rating paragonabile a quello dello stato.

 

Tuttavia in questa fase si rileva una discontinuità proprio riguardo le pretese estere su aziende considerate strategiche: in un momento in cui la politica non può intervenire stanno avanzando degli attori finanziari che perseguendo interessi propri fanno, per coincidenza, anche gli interessi di bandiera. Due giorni dopo le elezioni il fondo attivista americano Elliott Management ha reso noto di avere rastrellato almeno il 6 per cento delle azioni di Telecom Italia (Tim) e ha fatto sapere di essere intenzionato a salire per insidiare i francesi di Vivendi che dirigono la prima compagnia telefonica italiana per conto del padrone Bolloré. Il fondo del finanziere Paul Singer, con 34 miliardi di dollari in gestione, ha intenzione di accumulare titoli al punto da forzare una differente strategia del gruppo e creare valore per gli altri azionisti, i fondi istituzionali e i piccoli soci. Il fondo Elliott vorrebbe innazitutto un board composto solo da amministratori italiani e indipendenti, in luogo di quelli espressi da Vivendi, e realizzare lo scorporo della rete Tim assegnando le azioni della nuova società della rete agli azionisti attuali. Un approccio che si incrocia, da un lato, con gli interessi di Mediaset che è essa stessa insidiata dalla scalata di Vivendi e che vede il fondatore Silvio Berlusconi in una condizione di debolezza politica visto il risultato elettorale sfavorevole per Forza Italia, battuta dalla Lega di Matteo Salvini. Dall’altro lato, la mossa di Elliott, pur non essendo ufficialmente concepita per questo, potrebbe incoraggiare una fusione della società della rete con l’operatore di stato Open Fiber, di proprietà di Cassa depositi e prestiti e di Enel, per permettere così allo stato di tornare in possesso di una infrastruttura rilevante qual è quella delle telecomunicazioni in èra digitale. In questo caso sono le forze di mercato a puntellare una politica imbelle, forse realizzandone gli obiettivi in modo semmai fortuito.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.