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Ricette per rendere l'Italia più libera

Massimiliano Trovato

La classifica dello Human Freedom Index suggerisce un programma di interventi per migliorare la situazione nel nostro paese. Sicuri che ai partiti interessi occuparsene?

Siamo abituati a pensare la libertà come un attributo elementare, una variabile discreta, acceso o spento, presente o assente, come la vita – “mezzo morto” è una figura retorica – o come la gravidanza – non si è mai vista una donna incinta, ma solo nei weekend. Ci guardiamo allo specchio; non notiamo catene; ne concludiamo, con un certo conforto, che possiamo dirci liberi. E invece la libertà è fluida, ghiaccia, evapora, s’insinua nelle crepe e fugge sotto i mobili: la domanda non è se siamo liberi, ma quanto lo siamo.

 

Una risposta provvisoria – ma la più accorta di cui disponiamo – è quella messa a punto da Ian Vásquez and Tanja Porčnik nello Human Freedom Index curato annualmente per il Cato Institute, il Fraser Institute e la Friedrich Naumann Foundation, e la cui terza edizione – che adopera dati aggiornati al 2015 – è stata diffusa la scorsa settimana. La risposta più accorta, si diceva, non tanto per il perimetro dell’analisi – estesa a centocinquantanove paesi e settantanove indicatori, organizzati in dodici categorie – quanto per l’approccio complessivo dell’operazione, che mira ad abbracciare la complessità dell’autonomia individuale ricomponendo entro un’unica immagine i risultati prodotti da una pletora di rapporti distinti e devoti ad ambiti più limitati: i diritti politici, la libertà d’espressione, la libertà di stampa o le libertà economiche (tra questi l’Economic Freedom of the World Index, che dello Human Freedom Index è parente prossimo). 

 

In che stato si trova, dunque, la libertà nel mondo? Uno stato tutt’altro che lusinghiero. Il punteggio medio dei paesi analizzati, misurato su una scala da 0 a 10, è di 6,93 – in calo, sia pur lieve, rispetto tanto al risultato del 2014 (6,98), quanto a quello del 2008, il primo anno dell’intervallo considerato dagli autori (7,05). In particolare, solo tre delle dodici categorie individuate – tutte riferibili al versante delle libertà economiche: stabilità monetaria, commercio internazionale e regolamentazione – hanno fatto registrare un miglioramento nel settennio analizzato; mentre sono stati interessati da flessioni evidenti, comprese tra il mezzo punto e il quarto di punto, i profili della libertà di movimento, del rule of law (il solo indicatore, oltre a quello dedicato al sistema giuridico e alla tutela dei diritti di proprietà, a presentare una media inferiore alla sufficienza), della libertà d’espressione e della libertà d’associazione.

 

Tuttavia, i dati medi non permettono di apprezzare la notevolissima distanza che separa la testa e la coda della classifica: la prima occupata da Svizzera, Hong Kong e Nuova Zelanda, con punteggi appena inferiori al 9; la seconda abitata da Libia, Venezuela e Siria, i cui voti oscillano tra 4,37 e 4,04. Inoltre, a inflazionare il risultato complessivo dello studio contribuisce l’assenza di una ponderazione basata sul numero degli abitanti di ciascun paese: una caratteristica comune ad altre indagini simili, ma dall’impatto profondamente significativo, se consideriamo che l’ultimo quartile dei paesi ospita il 44 per cento della popolazione mondiale, contro il misero 15 per cento del primo quartile.

 

Nel plotone dei privilegiati rientra, a fatica, l’Italia, che – con un punteggio di 8,02, frutto della combinazione di un 8,74 nelle libertà personali e di un 7,30 nelle libertà economiche – si piazza al trentacinquesimo posto nella graduatoria generale e al quinto posto (su sei) in quella regionale: alle spalle di Malta, Portogallo, Cipro e Spagna, ma davanti alla Grecia. Per uno schieramento intenzionato a recuperare il terreno perduto, l’Index apparecchierebbe un programma di lavoro forse scolastico ma di grande chiarezza: ridurre il peso dello stato, sforbiciare gli oneri gravanti sul lavoro e sulle imprese, allentare la pressione politica sui mezzi d’informazione e allestire un sistema giudiziario in grado di assicurare l’imparzialità dei tribunali, il rispetto dei contratti e una giustizia rapida e affidabile.

 

E proprio in questo risiede la forza dello studio: al di là di alcune semplificazioni metodologiche, necessarie per governare secondo criteri uniformi l’enorme mole di dati impiegata, i suoi autori ci consegnano una griglia robusta per valutare nel contesto internazionale l’evoluzione delle politiche dei singoli paesi e suggerire ai decisori pubblici le aree prioritarie d’intervento. Il presupposto, naturalmente, è che si condivida la preferenza per la libertà: un assunto che, visto lo stato attuale del dibattito italiano, potrebbe rivelarsi eccessivamente ottimistico.

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