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La rinascita dell'Italia deve partire da formazione, ricerca, selezione

Redazione

Le fucine per ricostruire il nostro paese ci sono, serve qualcosa che le sappia unire tra loro. Parla Sabino Cassese

Professor Cassese, Michele Salvati, scrivendo sul Corriere della sera del 21 dicembre scorso, ha notato che “il nostro paese fa fatica a crescere”, ha indicato le cause di questa difficoltà, ha segnalato che vi è un vuoto di idee o un vuoto di coraggio nel manifestarle. Giuseppe De Rita, in una intervista al Dubbio del 19 dicembre, ha lamentato che si fa politica inseguendo gli eventi. Le propongo: non abbiamo paura di essere ambiziosi, parliamo della possibile rinascita dell’Italia.

Dalla storia ci viene qualche conferma. Delle antiche civiltà, l’Italia è l’unica che si sia rinnovata più volte, sempre ripartendo da zero: pensi a persiani, egiziani, greci. Insomma, abbiamo una certa tradizione che mostra la nostra capacità di rialzare la testa.

 

Ma ci son stati secoli bui. Ed è stata l’Italia intera, tutta la penisola?

Uno dei miei scrittori preferiti, Emanuele Felice, nel suo bel libro “Ascesa e declino. Storia economica d’Italia” (Mulino, 2015), osserva che nel corso dei suoi duemila e cinquecento anni di storia, l’Italia è stata a lungo, e in diverse epoche, l’economia più ricca e fiorente del mondo. Aggiungo che basta guardarsi intorno girando nella penisola per notarlo: ricchezza cittadina, monumenti, gallerie. Aggiungo ancora: il centro di queste rinascite è cambiato, perché la penisola non era ancora una unità. Di qui una certa forza diffusiva degli effetti delle varie rinascite.

 

Quali i principali periodi?

Il primato romano sul resto del mondo mediterraneo; le premesse poste tra XI e XIII secolo perché l’Italia divenisse di nuovo il centro del mondo; il Rinascimento, quando la penisola è divenuta la più avanzata economia del mondo, subito raggiunta dai Paesi Bassi; i buoni risultati del riformismo di alcuni governi durante il secolo dei lumi; il miracolo economico nel secondo dopoguerra, seguito dal brusco rallentamento. Tutto ciò per considerare solo l’aspetto economico. C’è poi il progresso civile, quello artistico, quello della cultura.

 

Che cosa potrebbe accelerare una rinascita?

Piano, piano. Prima c’è un’altra domanda: quale è il luogo nel quale può esserci una rinascita: una nazione, una città, dei circoli, delle comunità epistemiche, una rete? Ad esempio, gli economisti fanno rilevare che ormai l’asse Bologna-Milano è funzionalmente collegato a quello Monaco-Stoccarda: sono zone che procedono di pari passo. In Italia, in passato, hanno funzionato da incubatori organismi come Iri, Eni, Olivetti e Banca d’Italia. E poi vi sono i cosiddetti “centri di eccellenza”.

 

Che cosa intende?

Farò riferimento a un libro interessante “inventato” da quel bell’ingegno che è Domenico De Masi. Il titolo è “L’emozione e la regola. I gruppi creativi in Europa dal 1850 al 1950” e fu pubblicato da Laterza nel 1995. De Masi e molti altri autori vi passavano in rassegna il “Wiener Werkstätte”, il circolo filosofico di Vienna, l’Istituto di ricerca sociale di Francoforte, l’Istituto italiano del restauro, il gruppo di Bloomsbury, l’Istituto Pasteur di Parigi, il gruppo di via Panisperna e altre istituzioni o gruppi. Ne analizzavano le modalità originali di organizzazione, il lavoro collettivo, la forte motivazione, l’attività ideativa, lo spirito di gruppo, la reciproca fiducia, la dedizione totale, la molteplicità di interessi, la capacità di concentrare le energie sull’obiettivo, la preminenza di un leader fondatore, il fervore collettivo, l’interesse ad alimentare la memoria del gruppo. Insomma, la prima domanda da porsi è: c’è in Italia ora qualche cosa di simile, o vi sono le condizioni per crearlo? E in che modo si potrebbe coltivarla, senza produrre invidie distruttive?

 

Cerco di capire quel che vuole dire: lei pensa che vi sia bisogno, per la rinascita, di fucine, di incubatori, e pensa che ve ne siano le energie in Italia, solo che manca ciò che unisce.

Si, è un primo elemento di una catena. Poi, c’è il resto. C’è bisogno di focolai, di scuole, poche, dove possano concentrarsi i migliori talenti, di un “fast stream” nelle pubbliche amministrazioni, che consenta di arrivare rapidamente al bastone di maresciallo, di legami tra mondo produttivo e mondo della cultura. (segue a pagina tre)

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