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Follow the good sense

I capitali e le imprese se ne vanno dai focolai di leggerezza referendaria

Come leggere l’aumento del pil nella zona euro nel terzo trimestre 2017, previsto ieri dello 0,6 per cento da Eurostat? E’ scontato che si tratta di una buona notizia, che rafforza la ripresa, vediamo chi fa meglio e peggio. Tra i primi la Spagna, che prevede un terzo trimestre in aumento dello 0,8 per cento e una crescita a fine anno del 3,1. Francia e Germania crescono in modo costante dello 0,5-0,6 per cento e contano di chiudere l’anno a più 1,7-1,8 (la Francia) e al due (la Germania). L’Italia prova a ridurre il gap: i dati preliminari del trimestre verranno comunicati tra qualche settimana ma Bankitalia e Confindustria e Istat prevedono un più 0,5 per cento, e assieme all’Istat stimano a fine anno un punto e mezzo di crescita, quasi il doppio di quanto un anno fa immaginavano il governo e le istituzioni internazionali. C’è un altro dato utile: dopo molto tempo nel quale la crescita dell’Europa a 28 superava quella dell’Eurozona, adesso le cifre sono allineate, e le previsioni parlano di sorpasso di quest’ultima. Il motivo è evidente: la frenata del Regno Unito, tuttora nell’Ue. Il Regno Unito cresce dello 0,3-0,4 per cento: meno della zona euro, di Germania, Francia, Spagna e anche dell’Italia. Richard Turnill, responsabile delle strategie di investimento di BlackRock, il più grande fondo privato mondiale, ha detto ieri: “Le nostre stime suggeriscono nei prossimi dodici mesi un pil in calo rispetto alle altre economie del G7, e un’inflazione in aumento; tutto in controtendenza. Questo a causa della Brexit, dell’incertezza dei negoziati, dell’instabilità politica”. Conclusione: “Quanto più vicino si arriva a marzo 2019 senza un accordo, più le imprese domiciliate nel Regno Unito inizieranno ad adottare piani di emergenza”.

 

Il referendum per l’uscita inglese dalla Ue è di giugno 2016: siamo ormai a metà strada senza nessun progresso. L’economia ne prende atto, le statistiche volgono al brutto e aziende e investitori collaudano le uscite di sicurezza. Storia del tutto diversa per il referendum indipendentista della Catalogna. La fuga di banche e aziende da Barcellona e dintorni è stata fulminea, ma l’economia della Spagna non ne è danneggiata, benché i catalani si vantino di “mantenere gli spagnoli”. Conseguenza della scarsa o nulla credibilità del “govern” de Catalunya, per metà in trasferta-esilio a Bruxelles; ma anche frutto del criticato ma efficace pugno duro di Madrid e di Mariano Rajoy. La Catalexit certo non è la Brexit, se non altro perché il Regno Unito ha la sterlina, e un Commonwealth di riserva. Mentre la Catalogna si sarebbe trovata senza moneta, senza Europa e con la sola Ossezia del sud a riconoscerla. Magari dopo le elezioni catalane del 21 dicembre, queste nella legalità costituzionale, aziende e capitali torneranno. Di certo non lasceranno la Spagna, che intanto continua a crescere. L’impatto sull’economia spagnola è stato sterilizzato, proprio perché la Brexit è un affare peggiore e anche più serio della Catalexit. Ma una cosa accomuna i due referendum: la totale mancanza di senso logico del voto, e l’identica spensieratezza nel (non) prepararsi al dopo. Se i pur pragmatici inglesi “votando con la pancia” non ne hanno previsto le conseguenze, figuriamoci i semi-bolivaristi catalani. E’ una lezione per tutti i sovranismi e gli avventuristi d’Europa. Ed è magari anche il motivo per il quale i due populisti italiani, Beppe Grillo e Matteo Salvini, non parlano più di uscita dall’Europa (ma non si sa mai). “Follow the money”, segui i soldi, è la celebre regola dell’inchiesta Watergate, e relativo film. E i soldi, sia in termini di capitali sia di ricchezza, vanno sempre dove alberga il buon senso, “the good sense” per parafrasare il motto. Già in piena crisi, pochi lo ricordano, era accaduto all’Irlanda, quando si è rimessa in piedi con le proprie forze e le regole europee, e oggi vanta prospettive e reddito pro capite superiori al Regno Unito. Poi è stata la Spagna. Poi l’Olanda. La Francia. La Germania. Vedremo in primavera se l’Italia ha imparato la lezione.

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