Valide ragioni per aprire Fincantieri al mercato e all'Europa

Alfredo Macchiati*

Andrebbe incoraggiata sia la ripresa del processo di privatizzazione sia la collaborazione con la Francia

La disputa tra Fincantieri e il governo francese per la società Stx France che controlla i cantieri oceanici di Saint-Nazaire si presta a diverse chiavi di lettura. Nessuna, mi pare, giustifica l’anti-macronismo che oramai sembra essere diventato il leit motiv di molta stampa italiana. Il Foglio in questi giorni si è invece soffermato sul tema della discutibile affidabilità dell’azionista pubblico italiano della Fincantieri, suggerendo dunque di tentare nuovamente la strada privatizzazione. Dopo il tentativo non entusiasmante della quotazione in Borsa nel 2014, vale la pena di provare nuovamente a introdurre logiche di mercato in una società che ha mostrato vari deficit nel corso degli anni. Il Foglio ha suggerito che la controllata di Cassa depositi e prestiti, Fintecna, scenda dal 71 per cento circa di Fincantieri per arrivare al 50-51 per cento, lasciando il 50-49 per cento delle azioni al mercato. La proposta merita attenzione. In questo modo infatti lo stato non perderebbe il controllo di un asset come la cantieristica, che anche i francesi legittimamente considerano strategico – e lo è per tecnologia, conoscenza tecnica e occupazione che richiede e impiega. Ma si potrebbe suggerire una riduzione più radicale nell’azionariato da parte del socio pubblico in modo che Fincantieri arrivi gradualmente ad adeguarsi al livello che contraddistingue altre rilevanti partecipate, nelle quali lo stato possiede un terzo circa delle azioni e ne nomina comunque i vertici. E’ il caso per esempio di Leonardo (ex Finmeccanica) (30,20 per cento), Enel (23,58 per cento) o Eni (30,1 per cento tra Tesoro e Cdp).

 

Per dimostrare discontinuità
in Fincantieri lo stato potrebbe cedere quote
e mantenere solo il 30 per cento circa come con Eni, Enel
e Leonardo. La proposta francese di condividere proprietà e gestione
non va lasciata cadere per velleità nazionalistiche.
In un'ottica europeista vuol dire creare alleanze

In un’intervista al Corriere della Sera il ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire, ha indicato all’Italia una “via d’uscita” dall’impasse dopo la diatriba tra governo Macron e governo Gentiloni in seguito alla decisione francese di giovedi scorso di esercitare il diritto di prelazione sulle azioni di Stx acquisite da Fincantieri. Una retromarcia rispetto all’accordo preliminare della primavera scorsa. La proposta francese consiste nel condividere la proprietà di Stx in modo paritetico e lasciare la designazione del presidente del consiglio di amministrazione a Fincantieri.

Le Maire ha voluto dimostrare l’intenzione di tutelare know-how e posti di lavoro in Francia. E insieme offrire un’alternativa percorribile al governo italiano in vista dell'incontro bilaterale che si è svolto a Roma con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e quello dello Sviluppo economico, Carlo Calenda. Alla fine dell’incontro le “posizioni sono distanti”, secondo Calenda. Mentre Le Maire ha detto che “troveremo una soluzione adeguata”, rimandando la decisione a settembre.

 

In un dibattito che è stato caratterizzato da una retorica eccessivamente nazionalistica l’idea di condividere la proprietà andrebbe presa in considerazione. Ciò rispecchierebbe meglio un’ottica europeista – che ambisce a realizzare una impresa comune tra due paesi – piuttosto che il meccanismo delle acquisizioni totalitarie dal quale per il momento Roma dice di non avere intenzione di muoversi. Direi anzi che le acquisizioni sono per loro natura “rivali” e si caratterizzano per una forte impronta nazionalistica mentre il controllo congiunto tra due o più imprese di diversi paesi è un meccanismo cooperativo, più coerente, almeno in linea di principio, con una politica europeista. Naturalmente si può discutere se un’impresa a controllo congiunto abbia una governance più o meno efficiente dal momento che il comando resta comunque incerto. In realtà la teoria economica non è del tutto univoca sul punto: proprio il rischio di deadlock per un impresa posseduta paritariamente può spingere a trovare soluzioni nelle decisioni strategiche. E comunque in Europa abbiamo un caso di successo di un’impresa comune: Airbus (a cui purtroppo noi non partecipiamo). Non si deve inoltre dimenticare che i cantieri Stx producono storicamente anche gli scafi delle navi da guerra: pretendere che una simile impresa passi sotto il controllo di un altro paese è idea un po’ velleitaria (il precedente “padrone” coreano di Stx France dimostra solo l’insipienza dell’ex presidente François Hollande). Se aggiungiamo che il settore della cantieristica europea richiede una decisa razionalizzazione è discutibile che Fincantieri possa avere le spalle sufficientemente larghe per portarla avanti da sola.

 

In altri termini, l’affermazione del ministro francese che per garantire un futuro migliore a Stx considera preferibile un controllo paritario tra i due paesi non mi pare così peregrina in punto di economia e non così estranea a uno spirito europeista, anzi il contrario. I critici potrebbero poi sollevare il mancato rispetto della reciprocità. Mi sembra un falso problema. Nel caso in discussione visto che noi non frapponiamo ostacoli all’acquisizione del controllo di imprese italiane ne discende che i francesi debbano comportarsi allo stesso modo?. Tralascio il solito “piagnonismo” italiano che ci porta a vedere la mancata reciprocità di fatto (quella di diritto dovrebbe essere garantita dalle regole europee) come la lesione di un astratto principio paritario, del tutto utopico nelle relazioni internazionali. Ci si dovrebbe infatti domandare come mai in tutti questi anni non siamo riusciti a disegnare regole efficaci per vigilare sulle acquisizioni da parte di imprese estere – ammesso che questo sia sempre un problema, considerato che le analisi disponibili indicano che gli investitori esteri guardano all’industria italiana per i suoi punti di forza e contribuiscono a far crescere sul territorio le realtà acquisite. E ci si dovrebbe invece domandare perché i nostri imprenditori sembrano – i dati disponibili non sono abbastanza affidabili – avere un’elevata propensione a vendere piuttosto che a comprare (nel caso della Francia, secondo Kpmg, nel 2016 il flusso di investimenti di quel paese in Italia avrebbe raggiunto i 6,6 miliardi di euro contro i 2,5 delle acquisizioni italiane oltralpe). Resta il problema della difesa delle imprese strategiche: ma se noi non siamo stati capaci di difenderle (il caso Telecom ma anche Pioneer), pretendere che anche gli altri si regolino nello stesso modo è un’idea bislacca. Non comportarsi da fessi non c’entra con la grandeur napoleonica. 

 

*Università Luiss - Guido Carli