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Privatizzare fa bene

Redazione

Uno stato che vuole tenersi le imprese pubbliche ci rende infelici. Due economisti spiegano il perché

Una delle possibili cause del mancato accordo tra Fincantieri e la società francese Stx per la proprietà dei cantieri di Saint Nazaire può essere individuata nell’inefficienza delle aziende pubbliche italiane. L’incapacità nel gestire imprese che operano nell’economia, sia in posizione di monopolio sia in posizioni aperte al libero mercato, non è un problema nuovo all’amministrazione pubblica italiana ma ben radicato nella storia economica del paese del novecento. Un’analisi dettagliata dei problemi italiani si trova nel paper di Vassilis Karantouinias e Dino Pinelli, “local state-owned enterprises in Italy: inefficiencies and ways forward” pubblicato nel 2016 dalla European economia economic briefs, la raccolta degli studi effettuati dallo staff della Commissione europea.

  

Secondo l'Istat le aziende controllate dallo stato nelle sue diverse articolazioni sono 7.770, di queste circa 6.000 sono locali

Scrivono i due economisti: “Dopo la crisi del 1929 lo stato utilizzò agenzie speciali per acquisire le imprese che stavano fallendo. Le proprietà dello stato crebbero rapidamente: nel gennaio del 1934, l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) possedeva circa il 48,5 per cento del capitale in Italia; nel marzo 1934 comprò anche il capitale delle maggiori banche (Banca commerciale italiana, Credito italiano e Banco di Roma) e alla fine del 1945 controllava 216 compagnie che impiegavano più di 135.000 persone. Dagli anni Ottanta in poi l’IRI moltiplicò le sue partecipazioni nelle società raggiungendo i 600.000 occupati”. Il modello IRI però era inefficiente: “A causa dei leggeri (quando non inesistenti) vincoli di budget e delle sue politiche antieconomiche, nel 1992 l’IRI perdeva 4,2 trilioni di lire l’anno (lo 0,3 per cento del pil) e aveva un debito consolidato di 72 trilioni di lire (intorno al 4,5 per cento del pil)”. Negli anni Novanta “il governo italiano fu dunque costretto a privatizzare gran parte delle attività detenute dall’impresa pubblica, anche in vista della nuova cornice europea in tema di libera concorrenza, aiuti di stato e apertura dei mercati. Il reddito da privatizzazione per l’Italia tra il 1993 e il 2003 è stato stimato in 110 miliardi di euro, il più alto delle prime 15 economie europee in termini assoluti e tra i più alti in percentuale col pil”.

 


 

A sinistra, i settori in cui il governo (centrale e locale) controlla almeno un'azienda (fonte: Odec).
A destra le amministrazioni pubbliche per settore (fonte: commissario alla spesa)

 


 

Nonostante le massiccia politica di privatizzazioni in Italia continuano a essere presenti molte aziende controllate da enti pubblici che operano nei settori economici più disparati: “Il numero di settori in cui il governo regionale e provinciale controlla almeno un’azienda è il terzo più elevato in Europa”. Secondo Karantouinias e Pinelli le aziende pubbliche non sono diminuite ma aumentate “perché il settore pubblico, tramite l’utilizzo di regimi giuridici di diritto privato, ha potuto trovare la flessibilità che le sempre maggiori limitazioni pubbliche non garantivano e gestire per conto proprio le attività che desiderava. Per questo motivo sono emerse una pletora di aziende pubbliche o semi-pubbliche attive in diversi settori, specialmente a livello municipale e regionale”. Secondo i ricercatori è molto complicato monitorare le aziende pubbliche, soprattutto perché non esistono dati ufficiali. “Secondo l’Istat le aziende controllate dallo stato nelle sue diverse articolazioni sono 7.770, di queste circa 6.000 sono locali; le camere di commercio, invece, ne contano 8.800 solo a livello locale. Si stima che le le imprese pubbliche locali occupino più di 500.000 persone; i dati a disposizione per 4.200 aziende (circa metà del totale) indicano un valore complessivo di 45 miliardi di euro, pari al 2,8 per cento del pil”.

   

"Un'analisi delle principali 20 città italiane mostra che il prezzo e la qualità dei servizi sono inversamente proporzionali"

Le inefficienze delle imprese pubbliche hanno molteplici ragioni, ma le più importanti sono “la mancanza di concorrenza, gli interventi della politica e una cornice normativa molto complessa”. Secondo i due economisti un problema importante è la tendenza ad affidare i servizi pubblici a società in-house, che sfuggono alle regole della concorrenza, nonostante il legislatore italiano abbia provato a porre rimedio sia nel 2013 sia nel 2015: “La tendenza delle amministrazioni locali a non aprire i servizi alla concorrenza si spiega con i rischi di perdita dei posti di lavoro di imprese che potrebbero trovarsi fuori dal mercato. Gli interventi della politica rendono da un lato stabili i livelli occupazionali, dall’altro più complicate le strutture aziendali. Questo causa una minore trasparenza delle procedure e una minore efficienza del management”. Anche rispetto alla forma giuridica esistono particolarità che non favoriscono il mercato: “Anche se la maggior parte delle aziende è costituita secondo regole di diritto privato, il legislatore italiano ha aggiunto molte deroghe basandosi sull’interesse pubblico delle attività delle imprese pubbliche. Le regole speciali possono includere tetti alla remunerazione dei dirigenti, procedure di reclutamento stringenti, controllo della Corte dei conti, restrizioni sulla spesa per consulenze e particolarità simili. Molte regole speciali sono state però emanate per soddisfare bisogni contingenti, senza una visione complessiva del mercato in cui agiscono e delle ripercussioni che possono avere sullo stesso. A ciò si aggiunge la sovrapposizione di norme appena emanate con quelle preesistenti, che rispondono a bisogni differenti e spesso confliggenti, ad esempio rispetto alle differenti categorie di imprese controllate dalla Pubblica amministrazione. Questa situazione implica una notevole incertezza nei procedimenti giudiziari”.

   

“Nel 2012 circa il 35 per cento delle imprese pubbliche locali ha fatto registrare una perdita, un fatto che indica un generale problema di cattivo management, attitudine strutturale e non ciclica, come dimostrano i dati precedenti alla crisi: nel 2007 il numero di imprese detenute dallo stato con esercizi in perdita era pari al 38,9 per cento, dunque persino più alta dei livelli raggiunti durante la crisi. Il lato positivo è che il 48 per cento delle perdite totali si concentra in 20 aziende locali, limitando i problemi di finanza pubblica a un piccolo set di compagnie. Le perdite si verificano nonostante i sostanziosi trasferimenti dalla pubblica amministrazione, stimati attorno ai 16,5 miliardi di euro annui, che includono compensazioni per obbligazioni di servizio pubblico, concessioni e aumenti di capitale per coprire le perdite. Non esiste però una chiara distinzione tra i differenti trasferimenti, e questo rende complicato stabilire se i trasferimenti sono proporzionali ai benefici apportati dall’attività gestita”. 

Secondo Karantouinias e Pinelli esistono anche altri preoccupanti segni di inefficienza: “Molte imprese sembrano contenitori vuoti, almeno 3.000 impiegano meno di 6 persone e in metà delle imprese locali il numero di dirigenti è maggiore di quelle degli impiegati; per un gran numero di imprese locali (circa 1.400), le quote detenute dall’azionista pubblico sembrano troppo basse (sotto il 5 per cento) per giustificare la partecipazione al capitale”.

   

Le inefficienze si ripercuotono sulla soddisfazione dei cittadini rispetto ai servizi: “I consumatori italiani esprimono una minore soddisfazione rispetto ai consumatori degli altri paesi rispetto ai servizi loro offerti, per esempio nel settore delle poste; gas elettricità e acqua; tram, bus locali, metro e servizi ferroviari. Senza considerare la bassa qualità percepita dei servizi, molti indicatori mostrano che dalla fine degli anni Novanta il prezzo dei servizi forniti dalle grandi imprese detenute dallo stato in settori come i rifiuti, l’acqua e trasporto ferroviario, sono cresciuti maggiormente in Italia che in Francia, Germania o l’intera Area Euro. Inoltre i prezzi regolati a livello locale sono cresciuti più velocemente rispetto all’indice dei prezzi dell’intero paese. In particolare, tra il 1999 e il 2005, l’indice di prezzi regolati a livello locale è aumentato del 73 per cento mentre il prezzo medio è aumentato del 36 per cento. Dall’inizio della crisi al 2015 il prezzo indice per i servizi localmente regolati è aumentato del 32 per cento, più del doppio rispetto all’incremento del prezzo medio, fermo al 14 per cento. 

Rispetto a questi dati è opportuno fare tre precisazioni. In primo luogo questi indicatori sono solo una variabile sostitutiva imperfetta del prezzo del servizio erogato dalle aziende pubbliche. Secondariamente, presi in considerazione i dati consultabili, non è possibile calcolare quanto l’inflazione differenziale positiva italiana in questi servizi sia dovuta all’effetto catch-up, e quindi se l’incremento di prezzo sia in realtà dovuto al fatto che le tariffe iniziali applicate ai consumatori fossero più basse della media. Per quanto riguarda il trasporto urbano, il prezzo medio dei biglietti a Roma, Milano, Torino nel 2013 era di 1,5 euro, mentre quello di Parigi era 1,7 euro, quello di Berlino 2,4 euro e quello di Londra 2,5 euro. Per concludere, l’incremento di prezzo potrebbe aver controbilanciato la graduale riduzione dei trasferimenti ricevuti dalla Pubblica amministrazione. In ogni caso, un’analisi delle principali 20 città italiane mostra che il prezzo e la qualità dei servizi sono inversamente proporzionali. E questo è in contrasto con la ragionevole aspettativa che a un incremento di prezzo corrispondono maggiori servizi. Ciò implica che le inefficienze risiedono sia nella politica di prezzi che nella qualità dei servizi”.

    

Come riformare l’arcipelago delle imprese pubbliche? “Una buona riforma dovrebbe riuscire a trovare il giusto equilibrio tra principi diversi per raggiungere l’obiettivo di riduzione delle spese: trasparenza e affidabilità vanno tenute insieme all’efficienza e all’autonomia aziendale. La privatizzazione delle imprese pubbliche locali, come possibile risultato del progetto di razionalizzazione, potrebbe certamente contribuire al successo dell’operazione. Per terminare, è cruciale che le esistenti restrizioni della concorrenza nei settori considerati siano rapidamente eliminate per evitare il consolidamento di posizioni di rendita.”

  

(a cura di Francesco Maselli)

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