Viviamo nella migliore delle epoche possibili, ma meglio non rilassarsi

Eugenio Cau

Il Guardian racconta il movimento neo ottimista e i suoi critici

Roma. Il 2016 è stato l’anno migliore della storia dell’umanità, e non c’è dato o statistica che possa negarlo. Da qualsiasi lato si cerchi di analizzare le cose – indici e tassi di mortalità infantile e in età adulta, tasso di malnutrizione, diffusione della povertà, alfabetizzazione e istruzione, riduzione della violenza, scomparsa delle guerre, miglioramento delle condizioni sanitarie, allungamento delle prospettive di vita, diffusione di sistemi di governo democratici, e si potrebbe andare avanti ancora per moltissime righe – tutti i numeri puntano al miglioramento netto. Gli uomini non hanno mai vissuto così tanto e così bene come nel 2016; non ci sono mai state così poche guerre; sempre più persone escono dallo stato di povertà e malnutrizione, la violenza non è più il metodo prediletto per risolvere i problemi. Insomma, nella scala ascendente tra l’inferno e il paradiso, ogni giorno che passa è un piccolo gradino che sale verso il giardino dell’Eden.

 

Questi concetti sono noti e ben pubblicizzati. Uno dei primi a mettere in fila le statistiche su come vanno bene le cose fu lo svedese Hans Rosling in una celebre Ted Talk nel 2007, e da allora i suoi argomenti sono diventati mainstream. Nel 2013, l’Economist ha dedicato al tema una celebre copertina sulla “fine della povertà”; più di recente, all’inizio di quest’anno, Nicholas Kristof ha fatto la facile previsione che il 2017 sarà (di nuovo) l’anno migliore di sempre.

 

Intorno al pensiero è nato un movimento, quello dei New Optimists, che si impegna a divulgare l’idea in base alla quale i trend che vediamo leggendo i giornali sono frutto di una dissonanza cognitiva. Aprire i quotidiani ogni giorno significa leggere di Isis, migranti disperati, disoccupazione rampante e catastrofi ambientali. L’idea che se ne fa il lettore medio, che legge le notizie senza pensare al quadro più ampio, è che il mondo stia andando sempre peggio, e questa impressione è confermata per esempio da un sondaggio di YouGov del 2015, secondo cui il 65 per cento degli americani e l’81 per cento dei francesi ritiene erroneamente che la situazione nel mondo stia peggiorando.

 

Oliver Burkeman del Guardian ha pubblicato un interessante long read dedicato ai neo ottimisti e intervista uno di loro, Johan Norberg, secondo cui la nostra tendenza a sopravvalutare le cattive notizie ha un’origine evolutiva: millenni fa, sottovalutare un segnale inquietante come il richiamo di un predatore poteva significare perdere la vita. I neo ottimisti, dunque, vogliono sconfiggere il subconscio pessimista degli uomini delle caverne e rimettere il genere umano sulla scala ascendente che ha inconsapevolmente percorso negli ultimi due-trecento anni.

 

L’intento è nobile e suffragato dai dati ma, come ricorda Burkeman, il concetto di ottimismo è più rischioso di quello che sembra. Essere ottimista non significa solo constatare l’oggettività dei miglioramenti già avvenuti, ma predire che ce ne saranno altri. Non significa soltanto appurare la bontà della ricetta usata finora, ma, almeno implicitamente, convincersi che la stessa ricetta può continuare ad andar bene senza cambiamenti.

 

Qui inizia il dibattito tra i neo ottimisti e quelli che potremmo chiamare – se solo il termine non fosse già appalto delle arti figurative – i neo realisti, gli uni sostenitori del fatto che il mondo si debba svegliare dal suo torpore pessimista e apprezzare i progressi che l’umanità ha compiuto, e gli altri convinti che è meglio tenersi un po’ di pessimismo ingiustificato piuttosto che rischiare di adagiarsi su un ottimismo compiacente. Burkeman cita per esempio il fatto che i neo ottimisti basano le loro previsioni sul progresso umano degli ultimi 200 anni quando invece, guardando all’intera storia dell’umanità lunga 200 mila anni, si potrebbe desumere che i periodi di prosperità e pace sono brevi e fragilissimi. Nota inoltre come l’ottimismo abbia spesso portato a cocenti delusioni, ultima quella degli europei della Belle Epoque, convinti, alla vigilia della Grande guerra, che i conflitti bellici fossero stati estirpati dal mondo. Il professore di Cambridge David Runciman, autore di un libro intitolato “The Confidence Trap”, dice al Guardian che, per esempio, la nostra fede nella solidità delle democrazia si è dimostrata in questi ultimi anni più fragile del previsto, come l’elezione di Donald Trump e il voto sulla Brexit hanno dimostrato.

Insomma, se il fatto che viviamo nella migliore delle epoche possibili è un dato dimostrato, il neo ottimismo che ne deriva è una teoria politica. Sta agli uomini, al progresso e alle riforme che saranno in grado di attuare, dimostrare che è la teoria giusta.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.