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Produttività e contrattazione territoriale sono antidoti al nanismo

Marco Bentivogli

Possiamo arrivare all’autunno, alla prossima Legge di bilancio parlando di Iva sì o no, legge elettorale e voucher e di fantomatiche invasioni di migranti e robot?

I mesi che ci separano dalle elezioni sono pochi, ma troppi per consegnarli ad un dibattito politico noioso in cui fa l’agenda chi non vuole che il paese faccia alcun agenda. Possiamo arrivare all’autunno, alla prossima Legge di bilancio parlando di Iva sì o no, legge elettorale e voucher e di fantomatiche invasioni di migranti e robot? L’articolo di Carlo Stagnaro e Marco Leonardi (il Foglio, 15 giugno) inizia finalmente a dare ordine a qualche buona idea in chiave propositiva. Incentivare la formazione di qualità e la riqualificazione dei lavoratori: sarebbe bello che questi temi entrassero nel dibattito politico come vaccino alla disoccupazione.

 

Il lavoro è la cosa più tassata nel nostro paese, per cui diventa complicato ripartire dal lavoro prescindendo da interventi come la riduzione del cuneo e incentivi più smart del passato. Ma il problema resta la natura del nostro sistema industriale. La taglia dimensionale media della nostra impresa è troppo piccola e questo sarà uno degli snodi più impegnativi da qui alla quarta rivoluzione industriale.

 

Secondo la Commissione europea il 90 per cento della nostra occupazione lavora in pmi, percentuali più alte si registrano solo a Malta, Cipro e Grecia. Il Regno Unito si attesta al 54, la Germania al 62, i paesi scandinavi attorno al 65. Se è vero che nella seconda fase della rivoluzione industriale la dimensione aziendale potrà ridursi, sarà possibile superare il modello delle grandi produzioni di serie, orientandosi verso produzioni sartoriali a piccoli lotti. Nella prima fase il nanismo aziendale sarà un problema enorme, in particolare per quanto riguarda la possibilità di accedere a investimenti importanti in tecnologie, il rafforzamento delle competenze dei lavoratori e la nuova organizzazione del lavoro. E’ sempre bene non generalizzare e ci sono pmi molto forti, ma il dato medio di produttività del nostro paese secondo il Clup (anche se il costo del lavoro per unità di prodotto non può certo essere l’unico indicatore) è inversamente proporzionale alla taglia dimensionale d’impresa. Abbiamo aziende sopra i 300 dipendenti che non hanno nulla da invidiare a quelle nordeuropee, ma sotto i 20 e sotto i 10 il costo del lavoro per unità di prodotto è enorme.

Come favorire le aggregazioni, la crescita aziendale? Tante cose che abbiamo osannato fino a ieri sono sempre più un limite alla crescita aziendale, la struttura della proprietà a base familiare nelle piccolissime imprese ha implicazioni gestionali e produttive non sempre virtuose e con scarsa delega di competenze. Condizioni che spesso pregiudicano anche la possibilità di arricchire le competenze e far arrivare nuovi investimenti. Anzi, spesso la crescita dimensionale a invarianza di modello di business e di gestione ha dato il colpo di grazia alle imprese. Saltati gran parte dei distretti, soprattutto quelli chiusi all’internazionalizzazione, sono spariti i centri di servizi alle imprese e nessuno si è occupato di assistere queste ultime a raccogliere le forze e a crescere adeguando modelli di gestione. Serve un’idea diversa di impresa, che parta da quel che c’è e da come curare le possibili linee evolutive, tenendo lontani i troppi (non tutti) consulenti che fanno benchmark su modelli teorici utili solo alla loro parcella. Cosa fare? Mi auguro che Confindustria capisca che la contrattazione territoriale, vista la taglia dimensionale delle nostre imprese, può essere la strada maestra per occuparsi di produttività. Non è un livello aggiuntivo di contrattazione, è un modo per fare massa critica su obiettivi condivisi, restituendo un ruolo agli attori del territorio. E’ un modo per sfidare la politica su cose concrete, misurabili. Ma per affrontare questa sfida, bisogna superare qualche pigrizia e molti dogmatismi.

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